DAVID SYLVIAN, Blemish (Samadhisound, 2003)

Ancora, dopo l’ennesimo ascolto, non sono riuscito ad eliminare l’inebetita espressione di stupore, logico seguito all’irrompere su un lettore cd del nuovo lavoro di David Sylvian.

L’immagine dell’artista che molti hanno in mente è quella del fine esteta capace di sfornare – dopo aver messo la parola fine sull’esperienza Japan – due lavori come “Brilliant Trees” e “Secrets of the Beehive”, nei quali la spinta avanguardistica si sposa alla perfezione con la melodia, riportando alla memoria tanto Bowie quanto Sakamoto (per non parlare delle collaborazioni con Holger Czukay, a sua volta mente dei mitici Can): ebbene, questo “Blemish” è quanto di più sorprendente ci si potesse aspettare!

Apre le danze proprio la title-track, poco meno di un quarto d’ora di studio minimale del rumorismo e del riverbero cosmico, tappeto sonoro scosso da rigurgiti tellurici sul quale si stende la voce di Sylvian, quasi ieratica nella sua decadente melanconia, profonda ipotesi dell’eterno e dei mutamenti del cosmo; una “macchia” che si allarga e si dipana, fino a prendere controllo di tutto.

“The Good Son” è l’occasione per ascoltare le improvvisazioni free-jazz del (giustamente) acclamato Derek Bailey: sulle scarne e aspre note della chitarra si muove il recitato suadente di Sylvian. Una contrapposizione netta che riesce a tramutarsi, miracolosamente, in piena armonia. La struttura sonora a cui si affida Sylvian è scarna, brulla, devastata dal rumore e dalla cacofonia, aliena, fuori luogo e fuori tempo come nell’eccezionale “The Only Daughter”, dove il minimalismo elettronico si fa più ovattato, delicato, e la voce cullante, calda.

Eppure il mondo riflesso in questo “Blemish” è tutt’altro che rassicurante, sempre sul punto di dover esplodere, scandito dai rumori e dai battiti che attraversano le zone d’ombra di “The Heart Knows Better”, in cui il canto si fa quasi subdolo, coperta che non svela tutti i suoi misteri e che altro non può – in un paesaggio desolato come quello riprodotto – che vivere di se stessa e delle sue molteplici (per quanto figlie della monotonia e dell’apatia) espressioni. “She is Not” è solo un accenno – sempre accompagnato dalle schizofrenie chitarristiche di Bailey – destinato a svanire nel vuoto, vuoto dal quale nasce e si genera “Late Night Shopping” , che nella spettrale sovrapposizione di suoni nasconde un canto di lavoro straziante, che è anche la linea melodica più ricercata dell’album, e per questo costretta a tramutarsi in pura distorsione e a morire sul levare.

“How Little We Need to be Happy” è il terzo capitolo del rapporto tra il salmodiare di Sylvian e l’estemporanea ricerca della sublimazione del rumore di Bailey, ed è forse la più riuscita delle tre “parti”. Un loop sporcato apre con tenebroso senso dell’epica romantica “A Fire in the Forest”, il brano che conclude l’album mostrando il volto meno duro di Sylvian e al contempo sublimando l’etica dell’intero lavoro. Un lavoro sicuramente non di facile ascolto, a tratti stressante, ma che ci apre gli occhi su un mondo al quale è impossibile restare indifferenti. A conti fatti, uno dei più begli album ascoltati in questo (pur ottimo) 2003.

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