KING CRIMSON, The Power To Believe (DGM/Sanctuary, 2003)

Ecco ancora i King Crimson. Le defezioni di Tony Levin e di Bill Bruford (protagonisti in quel formidabile doppio trio di “Thrak” e soprattutto delle straordinarie esibizioni live successive all’uscita di quel disco) avevano fatto sorgere delle preoccupazioni per il futuro del Re, preoccupazioni che in parte erano state confermate dall’uscita, nel 2000 del controverso “The ConstruKction of light”, album mancante soprattutto di intensità, esercizio di indubbio stile, ma che in quel caso sembrava almeno in parte giustificare le accuse (altre volte per lo più campate in aria o frutto di ascolti non particolarmente attenti) di estetismo fine a se stesso.

Questo nuovo “The Power to Believe” appare innanzitutto, già dopo qualche ascolto, un disco più intenso ed emotivamente carico rispetto al predecessore.

Il filo conduttore è la title-track, presente in quattro parti, che si fonda su un’esile ancorché suggestiva melodia cantata da una voce aliena, affascinante mistura di passato e futuro, presentata nella prima parte senza alcun accompagnamento strumentale (può ricordare “Peace – a beginning” da “In the wake of Poseidon”).

Nella seconda parte la melodia stessa viene cantata nel contesto di un pezzo di grande consistenza musicale, impregnato di densi profumi esotici, con atmosfere vicine a quelle dell’inizio della prima parte di “Larks’ tongues in aspic”, con Mastelotto a fare il lavoro che all’epoca fu di Bruford e Muir, con soundscapes avvolgenti e uno splendido solo di Fripp a concludere il brano: poche, lunghe note che portano lontano.

La terza parte è la più inquietante: la solita melodia viene spezzettata per lasciare spazio ad un teso dialogo tra la sezione ritmica ed un’ululante chitarra frippiana. Il tutto va a stemperarsi nell’etereo accompagnamento di soundscapes che, nella quarta parte del brano, accompagna la melodia iniziale, con la quale il disco si conclude allo stesso modo in cui era iniziato (altra analogia con “In the wake of Poseidon”).

Ma passiamo ai rimanenti brani. “Level five” è l’ennesima riflessione formale sulla struttura di Larks’ Tongues in aspic”, e c’è da dire che si tratta molto probabilmente della più efficace ripresa di quei temi dai tempi del mitico disco del 1973.

“Eyes wide open”: quella che è l’erede di “Matte Kudosai” o “One time”, se vogliamo ( i Crimson come ben sappiamo hanno abbandonato , dopo “Starless”, l’epicità del loro lato romantico), si presenta come una canzone raffinata, che non colpisce molto al primo impatto ma guadagna con l’aumentare degli ascolti.

“Facts of life” è un brano potente, con una ritmica che non lascia scampo ed un refrain che potrebbe ricordare i Nine Inch Nails o i Living Colour del grande e sottovalutato “Stain” (non a caso in questo disco si avverte più d’una volta il mutuo scambio di influenze tra il Re e i suoi “allievi” come certamente sono Vernon Reid, i Tool e, almeno in parte, Trent Reznor). Un brano che è una clamorosa dimostrazione di vitalità, energia crimsoniana allo stato puro.

Stesso discorso può essere fatto per la già nota “Happy with what you have to be happy with”, altro brano veramente poderoso, sulla linea di “Facts of life”, culminante nello scioglilingua del titolo. Ottima idea l’aver adattato la voce di Belew all’interpretazione di brani come questi, anche mediante trattamenti vari, come già era stato fatto in “ProzaKc Blues”, uno dei migliori pezzi del disco precedente.

“Dangerous curves” presenta una progressione che ricorda in qualche modo i Crimson del secondo lato di “In the wake….”, il tutto ovviamente in un contesto di sonorità tecnologicamente avanzate di 33 anni (!).

Questo album, in definitiva, ci dice che i King Crimson sono in forma, e ciò risulterà chiaro ad ogni ulteriore ascolto. La paura di ritrovarci di fronte ad un’opera in un certo senso involuta e rinchiusa in se stessa come la precedente affiora in realtà, a parere di chi scrive, nel quarto brano, “Elektrik”, dal suono molto simile nella parte iniziale al suono di “The construKction…” , ma come descritto tale paura è ben presto fugata.

Nel trentaquattresimo anno di carriera, un disco come questo potevano farlo solo i King Crimson.

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