BOB DYLAN, Slow Train Coming (Columbia, 1979)

Per descrivere la carriera di Bob Dylan si potrebbe tracciare, senza alcuna difficoltà, un diagramma: il cantautore di Duluth ha infatti evidenziato, negli anni di composizione, dei precisi punti di passaggio tesi a delimitare le varie “ere musicali” attraversate.

Nel bene o nel male che sia. Dal 1961 al 1964 c’è stato il periodo folk, dal 1965 al 1967 si è assistito al folk-rock, trasudante di r’n’r e di torrenziali blues, dal 1968 al 1973 Dylan ha mostrato un interesse per le radici del suono americano (cajun e country), dal 1975 al 1978 tre album rock di maniera (“Blood on the Tracks”, “Desire”, “Street Legal”), con esiti sicuramente positivi, ma apprezzabili più per l’indubbio talento che per la capacità creativa.

Nel 1979 vede la luce questo “Slow Train Coming”, ed è da subito palese come si apra con questo lavoro una nuova epoca per Dylan: l’album è infatti composto esclusivamente da testi di contenuto religioso. L’ateo e materialista menestrello di “Masters of War” è lontano anni luce dal cantante dalla voce corposa che segna questo inno alla cristianità (e Dylan vincerà anche il Grammy Award per la miglior performance vocale rock con il brano di apertura “Gotta Serve Somebody”).

Ebreo di nascita, ateo di gioventù, Dylan diventa dunque un “cristiano rinato” – come ama apostrofarsi – e dedica tutta la sua arte alla figura del Cristo e ai riferimenti biblici (in brani come “Man Gave Names to All the Animals”). A livello di ispirazione lirica non si può certo dire che la conversione abbia giovato a Dylan, che mostra una serie di figure retoriche e di metafore in fin dei conti abbastanza banali e reiterate. La produzione è invece più che soddisfacente, grazie ad una pulizia del suono calibrata ed efficace (la pessima qualità della registrazione aveva rovinato un album come “Street Legal”) e all’apporto di musicisti preparati, come Mark Knopfler che imperversa con la sua chitarra.

Nell’insieme un album che lascia il tempo che trova, senza nessun reale acuto e con una patina di stantio che si fa in più punti pericolosamente largo. Un album che prelude al futuro immediatamente successivo, costellato di lavori mediocri sempre imperniati sul materiale religioso come “Saved”, “Shot of Love”, “Infidels”, il furbo e falso “Empire Burlesque”.

Ci vorranno dieci anni e l’uscita di “Oh Mercy” per riuscire a riconoscere dietro degli arrangiamenti fin troppo accurati e arroganti la mano delicata del cantautore dallo sguardo dolce e dalla voce sporca di sigarette.

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