LEONARD COHEN, Ten New Songs (Columbia, 2001)

Finalmente è ritornato! A nove anni dall’ultimo lavoro in studio, l’eccezionale “The Future”, Leonard Cohen torna con la sua voce a smuovere le angosce residue della nostra anima. Dopo aver cercato la pace spirituale in un monastero buddista, rifuggendo, come suo solito, la pubblicità e la fama, porta alla luce dieci nuove canzoni, semplicemente dieci nuove canzoni, come emblematicamente recita il titolo dell’album. Dieci passi timidi e al contempo decisi verso la purezza.

Si inizia con la batteria, accompagnata da uno stuolo di tastiere profondo e da un delicato riff di chitarra, poi ecco la sua voce che scende innalzandoci e facendoci entrare “nella sua vita segreta”. E questo è il registro che l’album porta avanti, atmosfere tenui e soffuse, profondità della ricerca del suono, canto basso e controcanto aulico, tensione e snervamento teso ad appagare la ritrovata pienezza dei sentimenti, perdita di coscienza, o forse meglio perdita della percezione della coscienza, perché se sulla pelle si può scivolare e sfuggire è nella profondità dell’animo che Cohen ci incatena e ci rende fragilmente perfetti per la durata dell’album, che è una sorta di “A Thousand Kisses Deep”, un gentile tocco di un anziano a mille baci di profondità. C’è, e si nota, l’influenza dell’esperienza buddista, come palesato in “That Don’t Make It Junk” e nell’ipnotica “Here It Is”, ma alle spalle del tutto c’è il solito Leonard Cohen, con le sue dolci ballate che da sempre l’hanno contraddistinto come uno dei più grandi cantautori di tutti i tempi, preso come esempio da gente come Nick Cave e Jeff Buckley. Sì, perché alle spalle di “Alexandra Leaving” c’è sempre Suzanne, simbolo ideale di Cohen, sua musa alla ricerca perpetua della libertà, che sia essa prigione di se stessa o libertà immateriale ed eterna.

Ad accompagnare il maestro in questo cammino c’è sempre la voce di Sharon Robinson che ha scritto con Cohen anche la musica e i testi. Un lavoro a due, dunque, che pure il cantautore riesce in ogni occasione a fare suo e universale. Un cammino in cui Cohen ringrazia chi gli è stato vicino, lui così schivo, lui così poco attratto dalle luci dei riflettori e un cammino alla fine del quale è capace di definirsi “Felice”. Consapevole che la sua felicità si riflette, come luce spezzata, sui nostri sogni e i nostri desideri. Senza un perché, senza un reale motivo, sappiamo solo che è da sempre così. Perché, come Suzanne, ci ha toccato il corpo con la mente.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *