BOB DYLAN, The Freewheelin’ Bob Dylan (Columbia, 1963)

Secondo album e primo di una lunga serie di capolavori per Dylan. Esagerata come frase? Chiedete a tutti coloro che negli ultimi trentacinque anni hanno intrapreso la carriera di cantautore e vedrete come questo in questione sia con ogni probabilità il disco manifesto dei primi anni ’60. E come potrebbe essere altrimenti?

Tredici brani praticamente perfetti, che partono dal folk per arrivare ad uno stile personalissimo e inimitabile. Dylan spezza le regole della canzone d’autore dell’epoca e si fa paladino delle masse, portavoce di una generazione ancora confusa ma già preparata ai moti contestatari che la contraddistingueranno da lì a poco.

Ancora poco convinti delle mie parole? Bene, allora ascoltatevi la prima traccia dell’album. Si, si, è proprio “Blowin’ in the Wind”, insieme a “Yesterday” e “Wish You Where Here” la canzone più cantata della storia della musica. Dylan dirà in seguito di averla composta in dieci minuti e di non amarla, ma voi non dategli retta. Pensare a quanto è migliorata la scrittura di Dylan in appena un anno (sia per quanto riguarda le melodie sia per i testi) lascia sbalorditi e interdetti. La presa di coscienza del futuro menestrello è iniziata e non basterebbero dieci pagine a narrare le splendide poesie che si susseguono senza sosta.

C’è la dolcezza sussurrata di “Girl from the North Country”, la secca e lucida denuncia di “Masters of War” che, ripresa musicalmente da un brano tradizionale scozzese, è a tutt’oggi la più bella canzone di protesta mai scritta (“Avete causato la peggior paura che possa mai propagarsi. La paura di portare figli in questo mondo”, tragicamente attuale, direi), atto di resistenza contro i padroni del mondo, animati dal solo amore per il profitto, grido di rabbia impotente contro le ingiustizie.

C’è poi lo splendido nitore di “A Hard Rain’s A-Gonna Fall”, ispirata dalla poesia “Howl” di Allen Ginsberg (quella che inizia con la celebre frase “Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla follia” tanto per intenderci), e dove Dylan dà un’altra dimostrazione del suo genio poetico e musicale, trascinandoci poco a poco nella paranoia della dura pioggia che sta per cadere, attraverso una serie di immagini e rimandi emozionanti e unici che diventeranno uno dei tratti distintivi della sua arte.

C’è la malinconica dolcezza di “Don’t Think Twice it’s All Right”, ballata d’amore in seguito ripresa in versioni live da Joan Baez (madrina della musica folk), la cadenza vagabonda di “Bob Dylan’s Dream” (dove Bob torna a ricordare il viaggio che l’ha portato a New York, l’addio alle proprie radici, al proprio passato), l’indignazione antirazzista di “Oxford Town”, e la paranoia ironica di “Talking Wold War III Blues”, scritta nel tipico stile del blues parlato, tanto amato da Woody Guthrie.

A chiudere l’album, dopo l’arrangiamento della tradizionale “Corrina, Corrina”, la splendida e divertita dichiarazione di vita anarchica di “I Shall Be Free”, che dopo aver citato il presidente Kennedy, Brigitte Bardot, Anita Ekberg, Sofia Loren e Martin Luther King termina con la secca frase “Make love to Elizabeth Taylor, catch hell from Richard Burton”.

A dimostrazione della grande lezione di libertà di Dylan: in un album si può parlare di tutto, dalla guerra all’amore, dalle ingiustizie ai propri desideri. Se non era rivoluzionario questo nell’ormai lontano 1963…

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