PIXIES, Pixies (Cooking Vinyl, 2002)

Nessun vero titolo per questa ennesima uscita postuma dello storico gruppo capitanato da Black Francis, sulla cover solo il nome della band e la foto di un mucchio di audiocassette. Eppure l’essenza del progetto è tutta qui, e per comprenderla bisogna ripercorrere la storia della band.

Nel 1987, quando Francis, Deal (che ancora si faceva chiamare Mrs. John Murphy), Santiago e Lovering vennero contattati da Gary Smith, il produttore gli chiese la registrazione del maggior numero di demo possibile. I quattro in tre giorni sfornarono la bellezza di diciassette pezzi, che raccolti insieme andarono a formare quel feticcio che sarebbe diventato in seguito nella mente dei fans “The Purple Tape” – per il colore delle cassette.

Dopo essere passati alla 4AD di Ivo Watts i Pixies decisero di formare il loro primo album, “Come On Pilgrim”, con otto dei pezzi estratti dalle registrazioni purpuree. I restanti nove sono ora qui, in quella che è probabilmente l’uscita antologica più intelligente da quando il gruppo si è sciolto, nell’ormai lontano 1992.

Di questi brani solo uno è un inedito a tutto tondo, il divertimento a metà tra il surf e il punk di “Rock A My Soul”; “Broken Face”, “Break My Body” e “I’m Amazed” finiranno nella scaletta di “Surfer Rosa”, “Here Comes Your Man” sarà uno dei brani portanti di “Doolittle”, “Down to the Well” verrà ripresa in “Bossanova”, così come “Subbacultcha” troverà la sua collocazione in “Trompe le Monde”.

A rimanere fuori dal lotto degli album ufficiali due brani destinati a ricevere notorietà dai live. “Build High” (che diventerà una b-side per il lancio del singolo di “Planet of Sound” nel 1991) sembra quasi una ballata country filtrata attraverso gli occhi della generazione new wave, e rispecchia in pieno l’etica musicale dei primi anni della band. “In Heaven”, invece, è l’unica cover del lotto, portando la firma di Peter Ivers e David Lynch (si, proprio il regista di “Velluto blu”, “Twin Peaks” e “Mulholland Drive”), e faceva parte della colonna sonora di “Eraserhead”, lungometraggio d’esordio del visionario regista statunitense.

Se i brani che vedranno la luce su “Surfer Rosa” sembrano già aver trovato la propria dimensione, risultando praticamente identici alla versione definitiva (anche se è molto interessante la variazione di “I’m Amazed” dopo il secondo ritornello, con una serie di vocalizzi di Kim Deal che ricordano da vicino i divertimenti di molti gruppi anni ’60 e ’70, come Peter, Paul & Mary), la versione di “Here Comes Your Man” lascia a dir poco sbalorditi. Se il suono risulta ovviamente meno levigato e più immediato, è proprio il tono che la band dà al brano a sorprendere. L’intro, più lungo e incentrato sulla chitarra acustica, dà il via alle danze, la voce inconfondibile di Francis porta a termine la prima strofa (il controcanto di Kim Deal è su un’ottava superiore), che ricorda i lavori degli Husker Du di Bob Mould e Grant Hart.

La seconda parte è incentrata sul basso, che segue una ritmica a metà tra il rock e il reggae, prima che tornino a farsi sentire le chitarre di Santiago (che passa da un semplice delay a sporcature improvvise) e Francis. Il tutto si avvia alla conclusione in un crescendo graduale dell’intensità dei colpi della batteria di Lovering, che segnano gli urli striduli del cantante. Follia allo stato puro.

“Subbacultcha”, insieme al precedente unico brano a ergersi al di sopra della soglia dei tre minuti, ha una rabbia interna e una cadenza forsennata che me la fa preferire di gran lunga alla versione presente sull’ultimo album prima dello scioglimento; dopotutto anche in questo caso è dimostrato che la canzone traesse vigore dalle esecuzioni dal vivo.

Non un antologia qualsiasi, quindi, non un’operazione commerciale e insulsa. Un testamento importante, un tassello che mancava nella grande storia di questa band seminale, venti minuti di frenesia e ironia.

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