SONIC YOUTH, EVOL (SST, 1986)

Terzo lavoro, novità all’orizzonte: la gioventù sonica inizia ad avvicinarsi al modello espressivo che la renderà famosa. A fianco delle solite sfuriate dissonanti e dei feedback infiniti, sottili, tenui, arrivano gli inseguimenti delle chitarre, il continuo lavoro di contorno del basso, la regolarità seducente della batteria (ancora suonata da Steve Shelley: non lascerà più il suo posto).

“My Violence is a Dream” canta dando via all’album Moore: finalmente la violenza degli inizi è diventata visione, magia, sogno. Sbalordisce il sussurro delicato di “Shadow of a Doubt” (citazione di un film di Hitchcock) e il suono di “Star Power”, anticipazione di quel fenomeno di massa che sarà il grunge. E, dopo aver omaggiato, nei lavori precedenti, gli Stooges e i Creedence Clearwater Revival, vere e proprie icone della musica rock, in “EVOL” si cita un altro personaggio guida del gruppo: madame Veronica Ciccone. No, non ridete, non è uno scherzo! Si, proprio lei, la regina del pop Madonna, in testa alle hits di mezzo mondo con brani come “Papa don’t Preach”, “La Isla Bonita” e “Material Girl”, è al centro di “Madonna, Sean and Me”: qui si parla del desiderio di uccidere le ragazze californiane, del desiderio di far esplodere qualcosa, di trovare il senso dell’esistenza. Chi non capisce l’ironia di Moore, Gordon, Ranaldo & Shelley non potrà mai apprezzare e capire la loro opera.

Opera complessa, aperta a nuove derivazioni, ma ancora attaccata al suo passato, come dimostra in maniera esemplare “In the Kingdom #19”, lunga suite rumorosa narrata da Moore, in cui viene ospitato Mike Watt, bassista dei Minutemen prima e dei Firehose successivamente, entrambi gruppi prodotti dalla SST (la casa di produzione dei Black Flag di Henry Rollins). Chi ama i Blonde Redhead, ascoltando “Green Light” comprenderà quanto peso abbiano avuto i Sonic Youth nella scelta sonora dei gemelli Pace, così come faranno i seguaci dei Marlene Kuntz prestando orecchio alle evoluzioni musicali di “Death To Our Friends”: grunge, post-punk, noise, altrock, tutto passa per le mani sacre del gruppo di Downtown (zona sud di Manhattan). Che abbandonano il solco del vinile con il rock tempestoso di “Bubblegum”.

E la diatriba sul significato del titolo, che stia per amore scritto al contrario o per maligno (si pronuncia “ivol”, similmente a “evil”), la lascio volentieri a studiosi del linguaggio e a nulla facenti. A me resta la musica. E mi basta.

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