SONIC YOUTH, Washing Machine (Geffen, 1995)

Dopo il non riuscitissimo “Experimental Jet Set, Trash and No Star”, che pure li ha visti in testa alle classifiche inglesi e statunitensi, e dopo essere stato il gruppo di punta del mastodontico Loolapalooza, il festival rock itinerante, i Sonic Youth invece di prendersi una pausa di riposo, gettano in pasto al pubblico il loro nuovo prodotto.

E’ incredibile la rapidità con cui la band della Grande Mela si rigenera e compone: nell’arco di appena dieci anni (da “Bad Moon Rising”) sono usciti nove album a firma Sonic Youth, più due album dei Ciccone Youth e due dei Dim Stars (band dove suonano Moore e Shelley). Per non parlare degli episodi solisti di tutti e quattro i membri. Una prolificità incredibile e quasi unica nella storia della musica. Tra l’altro con “Made in USA” il gruppo esordisce anche nel ruolo di autore di colonne sonore (ruolo reinterpretato in “Suburbia” di Richard Linklater).

“Washing Machine” è un album ricco, vario, e porta una ventata d’aria nuova dopo la parziale delusione del suo predecessore. Se da un lato ricorrono le atmosfere noise estreme e le corse chitarristiche a cui Moore e compagnia ha da sempre abituato il suo uditorio, si notano alcune interessanti novità. “Unwind” è il brano più dolce mai composto dalla band, rilassante ballata dagli echi a tratti quasi folk – ma pur sempre testardamente elettrici -, lunga, suadente, in cui è facile perdersi e abbandonare la propria coscienza per andare oltre, lontano, vagare negli spazi assolati che i quattro descrivono, abbandonando per una volta qualsiasi ideale punk. Anche la seguente “Little Trouble Girl” sorprende per la sua andatura estranea ai dettami soliti del gruppo e per il canto che, aggiungendo alla voce di Gordon quella di Kim Deal (indimenticabile voce femminile dei Pixies) accompagnata da Melissa Dunn e Lorette Velvette, tende ad assomigliare ad un coro da college. Di grande impatto “No Queen Blues”, resa memorabile dall’acida esecuzione e dalle tonalità accese, e la traccia nove, senza titolo, sorta di ghost track inserita al centro dell’album, brano strumentale capace di evocare al contempo libertà e perdizione. Il riverbero della chitarra di “The Diamond Sea” chiude l’album della maturità raggiunta.

L’età inizia a farsi sentire, la musica ne risente solo in aggiustamenti e miglioramenti, la follia è quella e non si può amputare, la grande statura del gruppo non può essere in nessun modo messa in discussione. I Sonic Youth sono l’esempio da portare a chi immagina gli anni ’80 come il periodo nero della musica rock.

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