AFTERHOURS, Quello che non c’è (Mescal, 2002)

Perplessità: con questo stato d’animo mi ero avvicinato alla data di uscita di questo “Quello che non c’è”, quarto album in studio da quando gli Afterhours cantano in italiano. Perplessità dettate da vari fattori, prima di tutti la dipartita dal gruppo di Xabier Iriondo, da sempre l’anima più distorta della band, a seguire l’inclinazione pop chiaramente visibile nel pur ottimo “Non è per sempre”.

Perplessità dissipate come rugiada al primo ascolto. Perché “Quello che non c’è” si attacca subito all’anima, con fermezza. Ed è tutto tranne che un album pop, su questo non ci sono dubbi. E quando è pop lo è nella sua forma più alta, energica e pura.

Manuel Agnelli si arrangia da solo alla chitarra, ma l’incedere di “Bungee Jumping” non ha nulla da invidiare alle perle rock del passato: un testo rapido e poi via con le distorsioni, accompagnate dalla batteria regolare e semplice di Giorgio Prette, dal basso di Andrea Viti, e dal violinista Dario Ciffo per l’occasione spostato all’organo hammond. Splendido il silenzio irreale che lega questo brano al seguente “Ritorno a casa”, dolce ballata acustica in cui Agnelli narra con voce profonda il sogno di avere memoria del proprio passato. Il rabbioso e ironico cantante milanese ha trovato definitivamente la sua maturità, abbandonando le idolatrie metal degli esordi in inglese e quelle punk di alcune digressioni in “Germi” e “Hai paura del buio?”; ha accostato le sue trovate musicali alla scena inglese degli anni ’90, come dichiara esplicitamente nella conclusiva “Il mio ruolo”, straordinaria e pacificante ballata, lunga ninnananna che va a far riposare l’album in uno scrigno dorato, protetto da un testo veramente bello (“Ma il mio ruolo è il pensiero malvagio che ti porta via con sé”) e da una musica ammaliante e delicata, che scivola verso la fine in un riverbero ossessivo. E lo scrigno dorato trattiene in sé anche l’emozionante title-track, la cupa “Sulle labbra” e il divertito rock di “Varanasi Baby”.

Difficile dire se col tempo questo album potrà superare le giuste glorie dello straordinario “Hai paura del buio?”, ancora oggi caleidoscopio dell’universo disegnato da Manuel Agnelli negli anni, sicuramente è altrettanto difficile trovare difetti in un’opera così sentita e intellettualmente onesta. Meno male: dopo lo scioglimento dei mitici C.S.I. e la sciatteria raggiunta dai Marlene Kuntz, temevo veramente l’impatto con quest’opera. Che invece mi lascia alla fine timorosamente speranzoso: almeno ora è certo, il futuro del rock italiano fortunatamente non è nelle mani dei Verdena. Uff…

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