I King Hannah a Milano: schivi e devastanti

King Hannah, Arci Bellezza, Milano, 12 aprile 2022.

Durante il live dei King Hannah arrivano diversi pensieri.

E’ un live in cui la sensazione, certamente soggettiva e non assoluta, è che sia pieno di gente che poi ne scriverà, ne fotograferà, ne parlerà sui social (spoiler ritardato: è successo).

Di addetti ai lavori o semplicemente di persone che hanno percepito, nelle note di “Crème Brûlée”, prima, o nell’incipit del disco d’esordio poi, quella a “A Well Made Woman” che ad alto volume suona sul palco come su disco, su disco come dal palco, hanno percepito, dicevamo, qualcosa che se non è necessariamente novità,  è sicuramente qualità.

Alta qualità.

Al tempo stesso durante il live arriva un pensiero: quanto è tutto parziale, per noi amanti della musica.

Quell’inizio algido, silenzioso, di un gruppo che inizierà a rivolgersi verso il pubblico dalla metà abbondante del live, è tanto determinato quanto strano: sono gli stessi che hai intervistato due ore prima (spoiler: arriva, arriva, il podcast con l’intervista, tenete d’occhio Kalporz) e che hai trovato sereni, simpatici, rilassati.

Persone normali, come il titolo di un libro, di Sally Rooney, in cui si scrive “La maggior parte della gente vive un’intera vita senza mai sentirsi così vicina a qualcuno” e questa frase pare essere l’inizio e la fine del rapporto tra Hannah e Craig, con il secondo che ha fondato la band, con quel nome, prima che lei lo sapesse: la vide cantare e decise che un giorno avrebbe fatto musica con lei.

Persone a loro agio con l’essere due persone normali che improvvisamente si ritrovano sparata una luce addosso: “it’s you and me” cantano, alla fine del disco e forse lo spazio che stanno scoprendo nel tour è che no, “it’s you, me and us” perché così accade, quando il pubblico si scalda, si sbraccia, interviene quasi a sproposito in un paio di pause senza che la canzone sia finita come per riempire i vuoti e allora si arriva all’estasi finale, alla comunione tra pubblico e band.

Succede che i King Hannah sono al primo vero tour e uscendo dai confini di Liverpool stanno scoprendo, anche nella fredda Italia (se si parla di novità, di suoni rock, di ricercare qualcosa che non sia già premasticato) che c’è un pubblico che ne ha già interiorizzato la forma, l’estetica, il suono.

Una scoperta che è diversa dal vedere una band in forma (lo sono i King Hannah, eccome, in formazione a 4 e senza timori nell’alzare i volumi, in questa sala del Circolo Arci Bellezza e noi glielo avevamo chiesto, durante l’intervista: play loud!) o un pubblico felice (lo è, soprattutto lo diventa, sempre più convinto minuto dopo minuto di stare vedendo un live che ricorderanno).

No, qui parliamo di una connessione, di Craig che nel non avere quasi contatti esterni a parte il suo mondo interiore e la sua chitarra (e dunque, è lui vittima di quella Hannah magnetica, o è forse il contrario?) e di Hannah, che è la star di un concerto che domina con una voce incredibile e che soprattutto pare, in ogni declinazione uscire senza sforzo, senza impegno, essere una estensione naturale che non è sforzo, impegno, impeto.

E’ semplicemente così, una Beth Gibbons dei Portishead, ammaliante e intensa e allo stesso tempo fragile, esile, minuta, magnetica ma non estetica: Beth fa pensare ad una vetta irraggiungibile, Hannah ad una compagnia di bevute che un minuto dopo si alza e timidamente ti rovista dentro l’anima con quel timbro vocale.

E nemmeno loro lo sono, estetici: i King Hannah sono un duo al primo disco che pare avere già dei momenti pronti ad essere crescendo emotivi del concerto: furiosa “Foolish Ceasar”, che da trip hop diventa hard trip rock (se perdonate il pessimo neologismo) e da una “Big Big Baby” che al contrario rallenta i battiti fino a diventare blues senza ritmo e cinematografica, quasi da film di Tarantino, due istanti che ci dicono che siamo già alla padronanza di brani che reggono alle riscritture live, con la maturità di chi sa maneggiare il nucleo centrale della canzone, al di là del vestito.

Nude, sono belle canzoni.

E poi il primo ep, saccheggiato e usato, anche lui appartenente già alla cultura di chi ascolta, non sono riempitivi, sono addizioni della discografia.

Cosa rimane, dunque di questo concerto? Forse Hannah che dice “siete veramente fantastici”, forse Craig che riesce a diventare un gigante sul palco senza dire una parola, forse il pubblico che si affolla al banchetto dei vinili e dei cd e l’annuncio, il mattino dopo, di ulteriori tre date in italia, tra soli due mesi.

E quante band straniere, non commerciali, ispirate e all’esordio si possono permettere cinque date in pochi mesi in una Italia mai così chiusa, musicalmente rivolta sui propri suoni, spenta da due anni di pandemia, quante band possono ambire ad un calendario così ampio, variegato, un prolungamento di attenzioni che pare innaturale in un momento storico in cui tutto si accendere e si spegne in fretta?

Poche e forse sta tutto qui: nella potenza, nell’immaginario, nel contrasto tra due ragazzi schivi quanto devastanti dal vivo, nelle canzoni tanto già sentite quanto capaci di catturare e piantarsi nell’anima.

Hanno suonato forte, sorriso molto, lasciato un ricordo forte in una sala che è parsa, ma è una sensazione soggettiva, non assoluta, piena di persone che avranno poi scritto condiviso, ripensato, postato.

Sono solo loro, come nel finale del disco: it’s you and me, kid, but i’m all, i’m ever gonna be.

Ed è abbastanza per dire che è stata una gran serata di musica.

(Alessio Falavena)