BILL CALLAHAN, “Gold Record” (Drag City, 2020)

Dentro la malinconia e il voluto spaesamento di ogni mio viaggio, in cuffia la discografia di Callahan non può mancare mai. Proprio come un diario di viaggio a varie tappe, il suo nuovo disco, concepito come una compilation di singoli indipendenti e anticipato da una sequenza cronologica dei pezzi pubblicati a cadenza settimanale, si è rivelato come un mutamento sensibile nella sua incarnazione post-Smog.

Dieci tracce registrate dal vivo con i fidati Jamie Zurverza e Matt Kinsey in un’atmosfera folk in chiave country/blues. Non è più il musicista palpitante di “Bathysphere” che sogna di essere calato in acque profonde incapace di rapportarsi con un mondo in cui non si sente parte, in una ritmica sfibrante e tesa, ma con sommessa delicatezza e con atmosfere gentilmente crepuscolari e colte riesce in questo suo ultimo lavoro a ritrovare ed accettare il contatto con la realtà, con la quotidianità interna ed esterna alla propria casa, la propria famiglia, la tv, il lavoro, la moglie, i vicini, e tutta l’umanità da saper gestire in ogni suo ruolo a cui la vita continuamente ci dà motivo di prova e imprevedibilmente sembra farlo in maniera divertente. A differenza di quanto ci si potrebbe aspettare, da questo incrocio sincretico discende un lavoro estremamente coeso nello scorrere dei suoi dieci brani, nel corso dei quali si avvicenda una superficie niente affatto immediata. L’accento viene posto subito con forza sull’elemento vocale che fin dall’iniziale “Pigeons” ci fa rapire dall’incipit che fa stile e sembra ironico, accompagnato da un arpeggio di chitarra : “Hello, I’m Johnny Cash” , e chiude con “ Sincerely, L. Cohen” citando ed emulando un altro maestro che fece lo stesso nella sua “Famous Blue Raincoat”. E così il cantautore cult degli Stati Uniti che non ama i matrimoni ne descrive uno nei minimi particolari, con “i piccioni che hanno mangiato il riso nuziale e sono esplosi da qualche parte sopra San Antonio”, e l’autista della limousine con le sue pillole di saggezza : “Quando ci si frequenta, ciascun vede solo l’altro, e il resto del mondo può andare all’inferno, mentre da sposati si è sposati con tutto il mondo, i ricchi, i poveri, i ‘normali’ e i gay ”. Un matrimonio con l’esperienza umana per Callahan che cristallizza la sua nuova impronta di marito e di padre in un’immagine di casa e famiglia che sembrava non avrebbe mai voluto dipingere, relegato nell’ombra del suo messaggio crepuscolare. Ma la letteratura del disco continua il suo corso.

In “Another song” la scena è quella di una coppia creativa sdraiata sul letto “non manca nulla… tranne un’altra canzone” ; “35” prosegue con la crisi esistenziale di un uomo che ama la lettura ma non riesce più a vedersi in ogni singola pagina, in ogni libro che legge, e una chitarra elettrica che ne rafforza il pathos ; c’è l’America che lavora nel lento blues di “The protest song” ; il calore di “ The Mackenzie” in cui il protagonista di Callahan accetta un’offerta d’aiuto dal suo vicino che non ha mai incontrato prima e invitato ad entrare finisce per prendere il posto del figlio morto dell’uomo a tavola e sonnecchiando nel suo letto dice che avrebbe voluto che Jack lo chiamasse di nuovo figlio. Un toccante racconto in stile Short Cuts, il film di una serie di racconti di Raymond Carver al quale il disco è quasi interamente ispirato; l’incanto di una rivisitazione di un suo brano “Let’s move to the country” dell’album “Knock knock” del 1999 con gli Smog, dove si vedeva già marito e padre; la bellissima “Breakfast” che descrive momenti di romantica quotidianità con sua moglie. Racconta ancora in “Cowboy” che “tutto ciò di cui ha bisogno è whisky, acqua, tortillas, fagioli e carne di bisonte una volta alla settimana”. Un’intera canzone dedicata a Ry Cooder che è “così rilassato e preciso nel suo attacco di disciplina”“sorride appena e tenta una nuova complicata posizione yoga” , e infine l’arrangiamento asciutto ma che segue la costante tecnica alla chitarra e la tromba di una sensibile istantanea di vita, di sogno e di morte in “As I wander”.

Un bel nido di racconti quindi, abilmente intessuto e che evolve guidato da una voce baritonale inconfondibile e una linea strumentale che ti accarezza senza addolcirsi eccessivamente quasi a voler richiamare proprio il nuovo Bill. La sua cifra stilistica infatti, è sempre stata rappresentata dall’introversione e continua ad esserlo ma stavolta si sentono il disgelo e la calma del musicista ma anche dell’uomo. Non più umorismo nero ma un’ironica matrice letteraria e filmica che lo incornicia in un linguaggio più ponderato, un suono sempre curato, facendo volutamente brillare d’oro la terra delle sue origini con immagini che possono restare nell’ascolto e nell’immaginazione ancora di tutti. Il tempo è mutevole e Bill Callahan descrive gli uomini nella loro stessa banale e vitale dorata umanità.

75/100

(E-Lester Burnham)