DEVENDRA BANHART, “Ma” (2019, Nonesuch Records)

 In un settembre particolarmente saturo di uscite di ogni genere che ci vengono imboccate con post e pubblicità bombardanti, sono arrivati anche dischi da assaporare piano e apprezzare sulla lunga distanza, anziché trincarseli alla goccia e dimenticarli una settimana dopo. E’ un esercizio difficile in un momento di bassissima soglia dell’attenzione anche da parte degli ascoltatori non occasionali, ma alcuni artisti riescono a tenere a bada la nostra famelicità di playlist ed il desiderio spasmodico di ascoltare ogni singolo disco che esce giornalmente. Uno di questi artisti è Devendra Banhart, mezza anima statunitense e mezzo venezuelana, che da quando nell’ormai lontano 2002 venne scoperto in un locale da Michael Gira degli Swans ha inanellato una serie di dischi omogenei e godibilissimi nei quali si sono sempre incontrati in modo originale Nord e Sud America.

La summa di questo percorso è Ma, decimo album di Banhart arrivato ora a due anni esatti da Ape in Pink Marble. Non che non avessimo già capito da tempo che il cantautore facesse un genere a sé, anzi negli anni sono sempre più innumerevoli i tentativi di imitazione del suo stile, ma è come se in quest’ultimo lavoro si siano accantonati gli orpelli sperimentali per farci concentrare a pieno sulla morbidezza e sulla fluidità di una tracklist che solo lui sa mettere insieme in questo modo, come non si sentiva da Cripple Crow del 2005. La poliglottia come al solito regna sovrana: gli amori non corrisposti, la difficoltà di vivere in un mondo sempre più tecnologico, la maternità (evocata metaforicamente nel titolo) ed anche il global warming sono sussurrati in inglese, spagnolo, portoghese e c’è anche spazio per un ritornello in giapponese nel primo singolo arrivato alle nostre orecchie questa estate, Kantori Ongaku.

Lingue differenti cui combaciano sonorità differenti, come se la lingua spagnola portasse automaticamente all’adozione di un sound più tropicale (o viceversa), e quella inglese all’indie rock più comprensibile a noi europei. Ma Taking a Page e Abre Las Manos, sulla carta lontanissime tra loro come mood, anziché disorientre si sposano perfettamente e scorrono nella corrente dei 46 minuti totali di disco, nella quale emerge per bellezza My Boyfriend’s In The Band.

La cifra stilistica maggiore di Devendra Bahnart è proprio questa, ovvero la facilità di far risuonare insieme bossanova, chitarre pizzicate, ballate al pianoforte, country classico americano, colonne sonore da western d’altri tempi e folk elettrico, hipsterismo leggiadro e autorialità da grande songwriter. Un compito delle recensioni è cercare dei paragoni, delle plausibili ispirazioni dell’artista in questione per creare dei link cerebrali tra il disco appena uscito ed alcune cose del passato, ma qui forse basta dire che in Ma Devendra Banhart suona come Devendra Banhart, e nel migliore dei modi da molto tempo a questa parte. Un disco da usare come pausa tra il centesimo mixtape hip hop dell’anno, la trap, i cassoni ed il logorio della vita moderna, come quegli amari da sorseggiare lentamente.

75/100

(Stefano D. Ottavio)