Radiohead (+ Caribou), Villa Manin, Codroipo (UD), 26 settembre 2012

I Radiohead hanno echeggiato nelle scene della buona musica da dicembre dell’anno scorso, quando con frizzante competizione ci si faceva a spallate digitali per comprare i biglietti delle quattro date che avrebbero dovuto tenere a luglio. Poi la sfiga l’ha posticipato a settembre e mi ha fatto pensare ad una cosa: prende tutti, anche quegli alieni degli amichetti di Thom.

Una copertina di Rolling Stone di quest’anno proclamava il 2012 come l’anno dei Radiohead e così è stato. Da dicembre sono stata attenta a non rompermi una gamba, un piede o ancora peggio una caviglia, per preservare la mia salute in vista del rimandato concerto a data da destinarsi. E quando negli scorsi mesi mi dicevano “Vai a vedere i Radiohead, che culo” la mia risposta era un “Sì, finalmente” soddisfatto, quasi orgasmico.

E il “sì finalmente” me lo sono detta da sola quando, entrando dentro a Villa Manin, ho visto il palco abbracciato dai portici della location. Diecimila persone hanno gremito il parco della vecchia residenza napoleonica, un numerino in confronto ai numeri registrati a Bologna, ma pur sempre buono per creare l’eco degli applausi dall’ultimo delle file fino al palco. E a tal proposito, mi piacerebbe aprire una parentesi su tutti coloro che non sanno battere le mani a tempo: non è difficile ragazzi, basta imitare tutti gli altri. Il pubblico di Codroipo ha partecipato al concerto in massa – e più o meno a tempo – merito anche della sorprendente fluidità di Yorke sul palco.

Ad aprire la serata è stato Caribou che ha scaldato le anime impazienti con i suoi pezzi, soprattutto con l’acclamatissima Odessa e l’interminabile Sun, pezzo che ho ancora in loop da mercoledì sera. “Sun sun sun sun” invece che mandare via le nuvole che promettevano male, ha ben pensato di invocare i cinque minuti di pioggia che hanno trasformato il pubblico in una fiera del k-way.

Per fortuna, all’inizio dell’esibizione dei tanto attesi Radiohead, la pioggia si mette tranquilla e le nuvole minacciose si godono in pace il concerto con noi, gente comune. Di fronte alle diecimila persone degli alieni con una navicella spaziale che dalle mie parti si definirebbe “da ufo”, tanto per rimanere in tema. Il palco è un bestione luminoso, vivo grazie ai pannelli LED mobili che creano forme nuove per ogni canzone. Pensate che l’attivismo di Yorke ha portato il gruppo a scegliere la plastica riciclata per la scenografia, che bravi ometti. Stage ecofriendly a parte, la band di Oxford ha fatto tremare la terra e le casse toraciche a tutti, uno spettacolo con la S maiuscola per intensità e cura dei particolari. Ovviamente anche per bravura, ma forse non era neanche il caso di dirlo, si sa già dove si va a finire durante un concerto dei Radiohead: altre galassie, ricordi, associazioni personali alle canzoni, paresi della mandibola perché si rimane a bocca aperta.

Io ho scampato il controllo dal chirurgo maxillofacciale, però devo ammettere che più volte sono rimasta a bocca aperta. La prima cosa impressionante dei Radiohead dal vivo sono i suoni e la voce di Thom, che sembrano copiati ed incollati dall’album registrato in studio. Lotus Flower apre le danze ai ventitré pezzi successivi, un continuo andirivieni tra l’ultimo album “The King of Limbs” a “The Bends”, passando tutta la storica discografia con pezzi più o meno dilatati per l’occasione. Particolarmente sorprendente è stato il passaggio tra Spinning Plates e Pyramid Song, uno cucito all’altro per non dare fiato al pubblico. A differenza delle altre tre date italiane, quella di Codroipo si è potuta gustare National Anthem e Street Spirit che personalmente non riuscivo a credere la stessero facendo, le lacrime.

Il ritmo del concerto era un’onda sinuosa, da momenti più elettronici alla performance acustica di Give Up The Ghost che ha zittito tutti, assieme ai pezzi storici come Nude e How To Disappear Completly. Chiusura ad orologeria con la doppietta Everything In It’s Right Palce e Idioteque, che ha preso di petto il pubblico facendolo completamente impazzire. Con assoluta sincerità speravo in un volume più alto per tutto il concerto, giusto per vibrare ancora di più assieme alle corde del basso e della chitarra.

E mentre cerco di trovare una chiusura simpatica per questo articolo, il mio vicino di casa spara a mille High and Dry. Adesso mi metto alla finestra a battere le mani fuori tempo.

(Chiara Ugosetti)

29 settembre 2012

foto: Henry Ruggeri Photo

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