OWEN PALLETT, Heartland (Domino, 2010)

Apprezzatissimo arrangiatore e violinista, il canadese Owen Pallett (da Toronto), malgrado la giovane età può già vantare un curriculm chilometrico ed altisonante (per cui molti protagonisti del panorama indie contemporaneo darebbero volentieri un braccio), caratterizzato da collaborazioni illustri praticamente con chiunque possa venirvi in mente: dai Pet Shop Boys agli Arcade Fire, passando per Beirut e Fucked Up, Last Shadow Puppets e Grizzly Bear, fino ad arrivare al suo progetto interamente personale Final Fantasy, sotto il cui marchio (abbandonato, pare, per motivi di di conflitti di copyright con l’omonimo videogioco nipponico) ha già pubblicato due apprezzati album.

Il nuovo disco, “Heartland”, registrato tra Stati Uniti, Canada e Islanda, prosegue e approfondisce, attraverso un ciclo di composizioni organizzate in una sorta di saga narrativa in capitoli, la ricerca già avviata nei lavori che lo hanno preceduto, all’insegna di un pop polifonico con ampie ali orchestrali, nutrito di aeree visioni wilsoniane (si ascoltino l’iniziale “Midnight Directives” o “The Great Elsewhere”) da ossigeno alla testa.

In composizioni come “Keep The Dog Quiet” o “Lewis Takes Off His Shirt” ciuffi rigogliosi di ottoni disneyani sbocciano a pelo d’aria su melodie strapiombanti e vertiginosi saliscendi armonici indecisi tra furore stravinskijano e l’acume descrittivo di un George Gershwin, lasciandosi illuminare da una grazia narrativa che pare appena sgusciata fuori dalle pagine più abbacinanti delle enciclopedie dell’immaginario pop stilate con inchiostro di sogno dal Brill Building o dal Tin Pan Alley negli anni della grande depressione.

Ascoltando pezzi come “Red Sun No.5”, “E Is For Estranged” o anche “Lewis Take Action” (tra le migliori) si rimane ammaliati da come la magniloquenza visiva di John Barry o di Michael Nyman (quasi una musica da guardare, un pittura cinematica di spartiti accatastati e svolazzi di note libertine) sappia restituirsi attraverso un tripudio floreale di origami sonori e vivide cascate di suoni densi e boccolosi.

Owen Pallett si conferma dunque un sublime e ricercatissimo arrangiatore, un sarto elegante e sontuosamente raffinato, capace di ritagliare architetture malleabili e slanciate, nella quali il respiro arioso del suo lirismo coltivatamente postromantico può circolare libero e senza peso, sfiorando superfici e volumi, senza però trattenere quasi nulla. E proprio in questa immaginazione smaterializzata e senza corpo può essere forse rintracciato, almeno da una certa prospettiva, uno dei limiti maggiori della proposta del canadese, quello cioè di aver finito col realizzare una album perfettamente cavo, un guscio o una conchiglia di arrangiamenti di arrangiamenti, nei quali i veli opachi di un mirabile artificio lasciano intuire soltanto le forme sfuggenti di altri veli.

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