Play Arezzo Art Festival (Arezzo) (20-26 luglio 2009)

Si sa, non serve specificarlo, l’estate è la stagione peggiore per le pene d’amore (rima involontaria ma efficace!), e siccome il sottoscritto ha in fondo sempre goduto, al di là di ogni compiacimento spiritoso, di un sontuoso abbonamento in tribuna d’onore con la sfiga più appiccicosa e persecutoria, non poteva certo farsi mancare la ghiottissima occasione di un fragoroso fallimento sentimentale all’indomani della stagione rivierasca, affinchè anche il più recondito sogno erotico fosse perfettamente e irrimediabilmente compromesso prima ancora di infilare il costume da bagno. Della serie: come suicidare un’estate nel disperato tentativo di riscattarla. E quale modo migliore allora per smaltire un rifiuto netto e affilato come una scimitarra implacabile se non quello di seppellirsi vivo nell’abbraccio caldo dell’amata e fedele musica e così facendo dimenticarsi di tutto e di sé? Con propositi di tal fatta infilati nelle tasche (bucate), ci siamo così fatti largo tra bottiglie vuote e rottami di cupa autocommiserazione amorosa, mancando tutta la prima parte del festival, anteprima di Patti Smith il 1 luglio compresa (ma voci attendibili ci raccontano di uno spettacolo all’altezza di cotanto nome storico).

Ci perdiamo, ma stavolta senza particolari rimpianti, anche Tracy Chapman, mentre dispiace non riuscire ad assistere, il 21 luglio, alla rassegna “Campus: covered!”, in cui gruppi più o meno esordienti di Arezzo (vincitori del concorso “Plug&Play2008”) si producono nell’esecuzione di cover di brani pop-rock classici legati in qualche modo alla tematica del cielo, preambolo alla successiva esibizione dei sempre più pimpanti (e ubiquitari) Marta Sui Tubi. Il progetto si è concretizzato anche nella realizzazione di un bel cd, “Covered! 2008/2009 Il Cielo Verticale” (che, grazie ad un rete tentacolare di amicizie nell’ambiente degli “addetti”, sono riuscito ad accaparrarmi anch’io!), in cui i brani riletti dalle giovani band (da “Lucy In The Sky With Diamonds” a “Gli Uccelli” di Battiato), prodotti artisticamente dal buon samaritano illuminato Paolo Benvegnù (vera e propria gloria cittadina), si alternano a pezzi inediti delle stesse band aretine, tra cui spiccano Fudo Satellite, QuartaDeriva, Sleeve, Vandemars e Globage. Una sorta di risarcimento tardivo ma sensato e funzionale al trattamento non certo con i guanti di velluto che il cartellone del festival aveva riservato ai gruppi cittadini l’anno precedente.

Si parte così il 23 luglio con la giornata musicalmente più fiacca, soprattutto agli occhi e alle orecchie del musicofilo alternativo ed ipercritico che è nascosto in noi. Saltata nel pomeriggio, per motivi famigliari/ di salute non meglio specificati, la presentazione del nuovo romanzo di Giuseppe Culicchia , “Bruci La Città” (peccato, sarebbe stato bello poter incontrare l’autore di “Tutti Giù Per Terra”, per un certo periodo sottofondo letterario borbottante della nostra adolescenza) ci avviamo scettici e po’ sconsolati all’ennesimo concerto della Bandabardò (e non si sa perchè, ma l’andare ad un concerto di questo gruppo non è quasi mai un puro atto di volontà individuale, quanto piuttosto l’inerte soccombere ad una serie di circostanze casuali che ti conducono lì). Prima di quello che scopriremmo essere il loro (se la memoria non inganna) millecentocinquantanovesimo concerto (!?), si esibiscono gli aretini Funk-Totum, simpatico e dinamico combo funk, parecchio innamorato di George Clinton, Chic, James Browm et similia, che apre la strada ai romani Rein, nutrita compagine dedita ad un combat folk venato di melodie popolari e poesia agreste, che ad alcuni farà venire in mente i Modena City Ramblers e ad altri invece i canzonieri di Giavanna Marini, ma che dimostra di saper tenere bene il palco, regalando una prestazione abbastanza solida e appassionata. A seguire sale sul palco il quartetto di Roberto Angelini, l’autore per cui nutriamo la maggiore curiosità, che propone in un’esibizione succinta, per non dire “anoressica” (mezz’ora scarsa), le canzoni del suo nuovo album, “La Vista Concessa”, fresco di stampa, in bilico tra cantautorato folk intimista e tentazioni più hard rock o blues in cui affiora una dimensione maggiormente “suonata”. La scrittura non è poi malaccio e lui canta piuttosto bene, sostenuto da una buona band di validi professionisti, all’occorrenza si concede anche qualche divagazione psichedelica alla steel guitar orizzontale simil-Ben Harper, ma l’impressione è che il suo genio si esprimesse al massimo delle proprie possibilità creative nella poesia suburbana vispamente arguta di un hit irresistibile come “Gattomatto”, che però non esegue. Peccato. Dopo i molisani Riserva Moac, anch’essi appartenenti al filone folk-popolare su cui evidentemente si incardina la serata (a parte Angelini), arriva la già annunciata Bandabardò, che ripercorre le fila di un ormai piuttosto nutrito (nonché straordinariamente consolidato e forse è proprio questo il problema…) gratest hits dal vivo, condito di trovate ai limiti del cabarettistico e travestimenti carnevaleschi che sembrano raccogliere l’entusiastica approvazione del pubblico, a giudicare dal pogo scatenato sottopalco.

Il venerdì è tempo di “notte rosa” (una sorta di versione femminilizzata della notte bianca, con fiocchi rosa disseminati per la città, come se nascesse ogni tre secondi una nuova ragazza pronta a spezzare, nel giro di qualche anno, il cuore di un innocente ragazzo innamorato) e non sono previste esibizioni musicali. Trascorriamo il pomeriggio pasteggiando pigramente, tra un stand gastronomico e l’altro, deliziosi panini alla porchetta innaffiati di birra artigianale, infilandoci in qualche spettacolo teatrale che non convince sino in fondo (ma la soglia d’attenzione è decisamente troppo bassa) e, infine, assistendo ad un bel reading musicale nel cortile del Palazzo Comunale, voce e chitarra, imperniato sulle disavventure europee di un’emigrata africana (“Il Paese Alle Mie Spalle”). La sera, poco dopo mezzanotte, parte “Vilependio”, lo spettacolo di una sempre più stanca e logorata Sabina Guzzanti, che dice per lo più cose sacrosante e talmente ovvie da non riuscire quasi più a far inquietare come pure dovrebbero (brutto segno…), tanto che metà dello show, a parte l’esilarante parodia fallocentrica berlusconiana, quasi meglio del penoso obbrobrio dell’originale, è occupata da un interminabile monologo autoriferito in cui la comica romana parla di sé, delle proprie drammatiche disavventure esistenziali tra denunce, scomuniche e querele, con tono vagamente professorale, e a ridere sono davvero in pochi. Ma la domanda allora è: se la satira diventa così irriducibilmente “seria” è davvero ancora una buona satira? Difficile rispondere, per intanto ci mettiamo a sfogliare vecchi albi di Alan Ford e Sturmtruppen…

Giunge alfine l’agognato sabato e l’attenzione è tutta per il concerto di Vinicio Capossela, che abbiamo visto l’ultima volta nel magnifico tour a supporto del bellissimo “Ovunque Proteggi”, risalente ormai al 2006. Prima però non ci perdiamo il reading musicale (nel bel Chiostro del Teatro Piero Aretino) del prediletto Stefano Benni il quale, in compagnia dell’eccellente pianista Umberto Petrin, ripercorre gli ultimi difficilissimi anni di vita del geniale pianista e compositore jazz americano Thelonious Monk (lo spettacolo si chiama infatti “Misterioso Viaggio Intorno A Monk”). L’esibizione è piacevolissima, guarnita da riletture eleganti del repertorio monkiano, ed esalta e colpisce l’incontenibile onnipotenza linguistica dello scrittore bolognese (sempre in forma, nonostante la non più verde età), la sua straordinaria capacità di raccontare e reinventare la bellezza irripetibile della musica e del suo ascolto. Davvero istruttivo. Ma non c’è neanche il tempo di mangiarsi un kebab d’asporto che subito parte lo spettacolo circense e felliniano del rinnovato Vinicio versione “Da solo”. Tra maghi e giganti scivola via la prima parte dello show, incentrata sui pezzi nuovi, per lo più ballate pianistiche dal taglio spiccatamente introspettivo (“Il Paradiso Dei Calzini”, “In Clandestinità” etc…) che rifluiscono poi, in un turbinio di vestiti e cappelli cambiati nel volgere di un’esecuzione, nel graduale recupero di canzoni significative e “immancabili” dei dischi precedenti, da “Che Coss’è L’Amor?” e “Camminante” a “Signora Luna” e “Marajà”, passando per “Il ballo di San Vito”, riletture dei sonetti michelangioleschi e gustosi birignao tex-mex. Da annotare la presenza, sia prima del concerto, che nella seconda parte, per un paio di pezzi, dell’orchestra di strada fiorentina “Fiati Sprecati”. Chiude l’esibizione una sempre emozionante “Ovunque Proteggi”, suonata in solitaria con un organetto a pompa, in un bis introdotto dalla considerazione ad effetto “Sono tornato quassù perchè in fondo non ho un posto migliore di questo dove andare”, con Vinicio che poi racconta, non senza qualche ragionevole perplessità, come molti abbiano scelto il suo bellissimo pezzo per suggellare musicalmente il proprio matrimonio (!). Il concerto è comunque un successo, almeno a giudicare dalla numerose donne rapite in coda al banchetto del merchandising. Dopo l’esibizione ci avventuriamo temerari nel backstage e dopo una lunga attesa, strappiamo una stretta di mano e un autografo con dedica illeggibile al nostro piccolo idolo (a maggior ragione “nostro” adesso che siamo precipitati in quel deprecabile sconforto amoroso di cui ancora Capossela è un sottilissimo e assai ispirato cantore), un po’ stanco e pensosamente taciturno, a dire il vero.

L’ultimo giorno, la domenica, si caratterizza per l’attesissima (dai numerosi fan) esibizione dei Negrita, che tende a mettere un po’ in ombra gli altri artisti in cartellone. Prima di recarci nell’area concerti andiamo a seguire dal vivo alcuni interpreti di questa nuova forma di sport filosofico metropolitano, oggi assai in voga, chiamato Parkour, consistente in una serie di evoluzioni acrobatiche a mani nude e senza protezioni finalizzate ad un rapido attraversamento dello spazio urbano, incurante degli ostacoli logistici rappresentati da edifici e più generici agglomerati cementizi, scavalcati a suon di capriole e volteggi spettacolari come se niente fosse. Questo in teoria. In pratica quello che abbiamo visto è stato per lo più un gruppetto di simpatiche persone in canottiera intente a passeggiare su bassi muretti impolverati, che al massimo arricchivano il tutto con qualche capriola visibilmente pilotata e un saltino plastico ogni tanto, ma forse la colpa era da ascrivere all’oggettiva ristrettezza dello spazio messo loro a disposizione (occupato per la maggior parte da due scale mobili, per altro). Ad un certo punto un cane scappa al suo padrone e insegue uno degli atleti che nell’impeto della situazione scavalca al balzo un muro piuttosto alto, poi salta fuori una biscia che crea scompiglio e mette fine per un po’ alla smilza dimostrazione (qualche malelingua insinua che lo sguinzagliamento del serpente sia un basso espediente strategico ideato dagli stessi saltatori per sbloccare situazioni di oggettiva difficoltà e imbarazzo), il tutto prima che una signora dal dirompente spirito civico minacci di denunciare l’intero baraccone, perchè questi spericolati privi di coscienza (in bilico su un muretto di un metro e mezzo) non hanno né autorizzazione né assicurazione o copertura medica…

Frattanto iniziano i concerti, e l’apertura viene affidata al baffuto cantautore sanmarinese (!?) di belle speranze Pier Matteo Carattoni, con il quale solidarizziamo subito attraverso uno spontaneo sentimento di pietà (è evidente che entrambi ci siamo lasciati alle spalle sofferenze a dir poco indicibili, fate un salto sul suo myspace, se vi capita…). Poi è la volta del gruppo vincitore del Play Campus 09, gli In Viola, artefici di un robusto noise rock psichedelico infarcito di pessimismo sociale e arditi proclami contro la congiura mediatico-isolazionista del nostro tempo, che lasciano un po’ il tempo che trovano, come troppo spesso del resto. Ci perdiamo abbastanza volentieri (ma lo scopo è nobile: dobbiamo procacciarci un panino alla porchetta per zittire il nostro stomaco) Marco Calliari, che, da come è vestito, ci pare, ad occhio e croce, un incrocio fra Roy Paci, Paolo Belli e Giuliano Palma, non propriamente il nostro pane quotidiano, purtroppo. Subito dopo arrivano per una breve esibizione i redivivi Meganoidi, che proprio in questi giorni promuovono il loro nuovo album, “Al Posto Del Fuoco”. Di acqua sotto i ponti ne è passata e la loro musica suona ai nostri orecchi come indissolubilmente legata al contesto socioculturale delle manifestazioni studentesche anti-Moratti della nostra sempre più lontana adolescenza liceale, raccontata così bene tanto nel suo romantico slancio idealistico e speranzoso (“Supereroi”) quanto nella sua successiva e amarissima disillusione politica (“Zeta Reticoli”). Il pubblico risponde discretamente e nel volgere di qualche minuto interlocutorio prende possesso del palco Paolo Benvegnù, accompagnato dal suo splendido gruppo che porta scherzosamente (ma neanche tanto) il suo stesso nome. Il concerto è bello e intenso come al solito (avremo poi modo di complimentarci di persona, impossessandoci anche di una preziosissima scaletta grazie al lesto amico Gabriele), con le varie “Suggestionabili”, “Cerchi Nell’acqua”, “La peste”, “La distanza” e “La schiena” a vibrare estatiche e sanguinanti nell’aria tesa, se non fosse per un manipolo di manigoldi senza scrupoli (felicemente fidanzati con donne che li amano, al contrario di noi, c’è da scommetterci…) che sputano balordaggini e volgarità dalla prime file, impazienti di ascoltare i loro Negrita subito dopo, tanto da costringere lo strenuo Benvegnù ad una reazione piuttosto stizzita e più che comprensibile (“la prossima canzone con cui ci saluteremo sarà in inglese, visto che alcune persone qui capiscono solo le parole cazzo e figa” prima di mandare affanculo tutti con supremo gesto punk che batte gli antagonisti sul loro stesso dissestato campo da gioco). Chiudono allora i Negrita, con il loro roboante nuovo album “HELLdorado” riproposto in alternanza rapsodica con i vecchi classici maturati in tre lustri di più o meno onorata militanza rock. Tra un assolo di troppo e qualche accenno di populismo ruffiano (“Arezzo non cambiare mai!” urla Pau), la band si produce in una buona esibizione, non travolgente ma nemmeno noiosa, ben suonata e corredata da effetti luminosi di prim’ordine. Ma la nostra testa è già altrove, imprigionata in tutt’altre dolorose faccende, e l’unica soluzione è allora quella di rifugiarsi in un festino culinario (ben più nefasto e pericoloso del suo omonimo del versante alcolico) coi fiocchi, ingozzandoci di ogni più ardita pietanza fin quasi a svenire, aggrappati ad un nudo marciapiede con pochi altri compagni d’avventura. Ma la consapevolezza che le ferite, sotto i grassi e le calorie accumulate con violenza e disprezzo, rimangano tragicamente aperte, resta pressoché indelebile e lo sarà ancora per molto, troppo tempo.

Tentando di stilare un bilancio vagamente complessivo, si può osservare come il festival debba ancora crescere e consolidarsi in una struttura più definita e organica, attraverso l’adozione di un cartellone musicalmente un pochino più coerente ma al tempo stesso eclettico e variegato e, soprattutto, attento a quelle che sono le nuove tendenze in atto nella musica rock “di qualità” contemporanea, sia essa italiana o internazionale. Solo così sarà forse possibile, magari sfrondando e snellendo il programma degli appuntamenti pomeridiani più marginali e dispersivi (troppo spesso disertati dal pubblico), attirare un maggior numero di persone e spettatori, provenienti anche da aree lontane dalla città, con un impatto concretamente positivo e apprezzabile per tutto il circuito economico e vitale cittadino. Sempre che sia questo, in definitiva, ciò che la città realmente vuole.

Un ringraziamento di cuore a Federico, Gabriele e a tutti gli altri imprescindibili membri della brigata aretina.