THE BLACK KEYS, Attack & Release (Nonesuch Records, 2008)

Tanto tanto tempo fa, qualcuno (un anziano, probabilmente) ci insegnò che il blues è tutto. Che come il blues non ce n’è e mai ce ne sarà. Noi, tutti belli convinti, con quelle due nozioni elementari e quei tre accordi base, imparavamo e un po’ automaticamente diffondevamo il verbo.
Poi, un giorno, con uno sbadiglio colossale ci siamo svegliati.
Da lì la realizzazione che il blues è davvero tutto, sia nel bene che nel male: incredibile summa di anima e tristezza e di note contrite e sofferte e intense e pentatoniche da masturbazione, da una parte; dall’altra, la noia più totale, la nauseante ripetitività e l’incapacità di uscire da quei quattro schemi iper-prevedibili.
Pare che i Black Keys abbiano raggiunto lo stesso traguardo mentale. Così, dopo aver spinto il loro incredibile garage-blues fino alla perfezione di “Rubber Factory” e aver lambito i lidi degli sbadigli di cui sopra con “Magic Potion”, hanno dato alla luce questo “Attack & Release” per il quale mi piace pensare che sia tutt’altra storia.

In realtà le basi sono sempre le stesse: un credibilissimo blues-rock sporco di garage e caratterizzato più che mai da un’incredibile vena soul. Bella novità, direte voi, siamo nel 2008. E qui casca l’asino. O meglio il topo (ok, questa faceva schifo). Proprio perché nel 2008, chi avrebbe senso chiamare dietro il mixer se non Danger Mouse?

L’hard-blues del duo si colora così di sfumature inedite che, ben lungi dallo snaturare il loro stile grezzo, riescono ad essere il vero valore aggiunto. Un organo per l’intenso soul di “Lies”, il tipico marchio Gnarls Barkley per la stupenda “Psychotic Girl”, un flauto traverso (che per forza ci viene da pensare ai Jethro Tull ma forse perché è l’unico flauto traverso che conosciamo) nella tipica “Same Old Thing”, e un sacco di altri trucchetti (come le due versioni, slow e fast, di “Remember When” o i cori quasi psych nella prepotente “I Got Mine”) sparsi per tutte le undici tracce di questo disco che è un po’ la perfezione formale dei Black Keys.

Tradizionalisti ma anche furbi, i due dell’Ohio faranno storcere il naso a qualche affezionato della sporcizia, anche se si spera basti la scrittura e una grinta soul che, nonostante il suono più pulito del solito, traspare da ogni singola nota emessa dall’ugola di Dan Auerbach. Un connubio che sulla carta pareva totalmente insensato ci ha invece regalato un disco che non solo è una delle uscite memorabili della band, ma anche uno dei dischi rock migliori dell’anno.

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