BRAD MEHLDAU, “Jacob’s Ladder” (Nonesuch Records, 2022)

E in principio fu il prog.

Che il vocabolario musicale di Brad Mehldau sia vasto tanto quanto la sua curiosità musicale lo si sa da tempo. Da anni il pianista americano, in parallelo alla sua regolare attività di leader del suo trio jazz, si cimenta in una selva di progetti che si dipanano tra gli estremi più svariati, passando con una naturalezza quasi lasciva dalla musica da camera, all’incontro con le radici della musica americana nel gustoso duo country/jazz con Chris Thile, arrivando infine ad assumere le vesti dell’esecutore classico nel suo disco “After Bach” – tanto per nominarne giusto alcuni. Una rigogliosità produttiva che non può che fare piacere: in fondo quante volte si ha l’occasione di poter toccare di proprio… orecchio le idee che sgorgano senza sosta da una mente cosi musicalmente brillante?

Tutto bene, quindi? Si e no, nel senso che ogni tanto avere nel bagaglio un talento così sfaccettato invoglia a certi piaceri di cui forse non si sente necessariamente il bisogno; e l’ultimo disco del musicista di Jacksonville, “Jacob’s Ladder” si ascrive più a questa categoria di miti peccati. L’idea portante del lavoro è una sorta di omaggio di Mehldau alle sue stesse radici d’infanzia, a quella musica prog che fu per lui il primo genere musicale ad ammaliarlo, fungendogli da porta d’entrata nel misterioso mondo delle sette note: uno spunto anche teneramente curioso, ma che nel suo risultato finale risulta essere confusionario.

Si perchè in questo “Jacob’s Ladder” – titolo dalla chiara ispirazione biblica – cercano di convivere mondi distantissimi; e nel seguirlo ci si perde, un po’ sconfortati, in una babele di giustapposizioni sonore. Da un lato ci sono riletture di brani di grandi gruppi prog del passato come “Tom Sawyer” dei Rush, qui rivisitata in maniera piacevole tra spume pianistiche e intrecci di synth e mandolino, suonato dal già citato Chris Thile, e “Cogs On Cogs” dei Gentle Giant, presentata in una decisamente meno appagante forma di suite dipanata tra piatte improvvisazioni jazzistiche su schemi ritmici abbastanza rigidi (la prima parte) suonati in duo con il batterista Mark Guiliana, riletture un po’ pedestri del brano originale (la seconda parte, con alla voce una troppo enfatica Becca Stevens) e fughe di ispirazione bachiana (la sorprendentemente alienante e insieme austera terza parte, decisamente più convincente). Dall’altro ci sono meditazioni originali dai tenui sapori progressive e jazz ma dai risultati letargici, quando non superflui: è il caso della suite che dà titolo al disco, che si apre con un tanto suggestivo quanto non necessario minuto e mezzo di spoken word sovrapposti; prosegue con un altro incontro tra synth, piano e batteria che si rifà a quanto già detto in “Cogs On Cogs” senza aggiungere alcunché; e si chiude con una partitura per voci, coro e sax che sembrerebbe voler suggerire un’ascesa celeste ma che invece non pare potersi liberare oltre che in un piccolo balzo terreno.

Tutto male, allora? No, perché in un paio di occasioni certe commistioni riescono meglio, come in “Herr Un Knecht”, dove i continui cambi di ritmo e di tema e il bruciante solo di sax di Joel Frahm ci conducono in una rigogliosissima pianta rampicante sonora, che si espande e si ramifica con tanta naturalezza quanto equilibrio; quando poi il brano si apre in un mefistofelico ritmo dimezzato, sembra di sentire una clamorosa unione tra metal e jazz. O come in “(Entracte) Glam Perfume”, argentata riflessione notturna per pianoforte, arpa e voci dai chiari richiami Romantici, con Mehldau che in poco più di cinque minuti e pur con qualche lungaggine, dipinge una piccola odissea di lirismo in miniatura per ottantotto tasti.

Ma è troppo poco; e alla fine tra jazz, prog, classica, spoken word e persino musica brasiliana, “Jacob’s Ladder” risulta un estenuante viaggio sonoro di oltre un’ora, con l’ascoltatore che al termine del disco si sente come se fosse appena sceso da un ottovolante lanciato ad altissima velocità: sballottato, senza che però molto gli sia rimasto impresso nella mente del paesaggio circostante, se non qualche sprazzo d’immagine sfocata e qualche curiosa stranezza. Scusa Brad, ma io stavolta non ti seguo.

52/100

(Edoardo Maggiolo)