MARRACASH, Marracash (Universal, 2008)

Il primo e attesissimo disco di Marracash si chiama “Marracash” . La scelta è meno banale di quanto potrebbe sembrare a prima vista: il titolo informa da subito l’ascoltatore del soggetto dell’opera, ovvero la vita del rapper in questione, cioè di un ragazzo di ventisette anni che vive in un quartiere periferico di Milano. Di cosa parla Marracash per parlarci di se stesso? Di molte cose, ovviamente, ma i temi dominanti sono essenzialmente due:

1) i soldi (ovvero: cosa prova a non averli, cosa prova una comunità che non ne ha, cosa prova a fare per averne, cosa prova adesso che ne ha fatti un po’ ma ha paura di ritornare a non averne)

2) il rapporto tra il posto in cui è nato e cresciuto (Barona, Milano) e il posto da cui viene (Sicilia) e a cui si sente indissolubilmente legato.

Come parla Marracash delle cose di cui parla? Beh, questo è senz’altro il punto di forza del cd, nonché il motivo per cui l’ mc milanese si è guadagnato l’attenzione e il rispetto della scena hip hop e (soprattutto) il contratto con la Universal.
Marracash ha flow, metrica, tecnica e la credibilità di strada necessaria per parlare di certi argomenti, ma il suo pregio è un altro: sa come parlare alla gente e sa di cosa parlare, e in più ha la capacità di dipingere situazioni e concetti attraverso una manciata di parole come solo le grandi penne sanno fare. Questa abilità lo aiuta soprattutto quando si tratta di raccontare storie, come in due delle tracce migliori del cd: se “Bastavano le briciole” è un pezzo spiccatamente autobiografico, in cui Marracash racconta della sua infanzia, di suo padre disoccupato che beve amari al bar per ingannare il tempo, della madre che sognava una casa privata e si ritrova a vivere in Barona dietro a una risaia, dei valori che sono riusciti a trasmettergli e che è riuscito ad apprezzare col tempo, “L’ultima settimana” è invece un racconto breve in versi, in cui il viaggio in Sicilia con la fidanzata è permeato da una sensazione crescente di inquietudine e amarezza, la cui ragione è svelata solo nelle battute finali.

Detto questo, il disco non si discosta poi molto dai cliché celoduristici che fanno parte sia dell’immaginario hip hop che di quello del tamarro di periferia: “Quello che deve arrivare” e “Fattore wow” sono esercizi di stile di appeal paramafioso, “Tutto questo” è pura autocelebrazione (ma incendiaria e carica di stile: “un passato da servo, una voce diversa, un nuovo gergo/la pura poesia di uscire di senno/ i brandelli dell’anima mia/stesi a asciugare all’inferno”), mentre “Sì sì con la testa” è uno sfottò verso gli sboròni e “Triste ma vero” passa in rassegna con feroce cinismo le tristi verità che rendono il mondo la merda che è (da segnalare: “sempre più simile a voi/ l’alcol ti tira fuori i lati peggiori/ sì ma restano pur sempre i tuoi” e “se ti vogliono bene tutti allora forse sei un uomo onesto/ ma più probabilmente zio sei solo un fesso”).

La traccia del cd che preferisco è, con mia grande sorpresa, quella che ha più probabilità di diventare il secondo singolo del cd (il primo, “Badabum Cha Cha”, assolve discretamente il suo compito, che è quello di penetrare grazie al ritornello onomatopeico nelle menti dei fruitori distratti di radio e MTV, motivandoli all’acquisto): “Estate in città” si appoggia all’irresistibile vocoder del ritornello ed è impreziosita dalla verve ironica di Marracash, che racconta il suo agosto nella Milano assolata e deserta, passato ad abbronzarsi sul balcone mangiando Mc Donald, razionando il fumo perché il pusher è in villeggiatura, ringraziando il cielo che almeno la vicina scassacazzo che si pompa il cd di Gigi D’Alessio è sotto un ombrellone.

Ma il disco ti è piaciuto o no?
Diciamo che Marracash ha talento da vendere, è assolutamente intenzionato a farlo e a ricavarne più quattrini che può. Per questo ha confezionato un cd che può essere ascoltato con piacere sia dalla nicchia di ascoltatori di genere che da un pubblico più ampio. Le basi di Don Joe e Deleterio suonano come si deve, si giovano senz’altro del mastering effettuato a New York e fanno parte di quel filone modernista che, senza scadere nel patetico, dà belle soddisfazioni anche pompato in autoradio. Eppure, nonostante l’esigenza di accontentare i gusti di tutti, il disco mantiene quel nocciolo di autenticità, di energia, di capacità di comunicare che fa ancora la differenza tra un paio di scarpe e un’opera d’arte, per quanto pop.
E poi rimango convinto che le potenzialità dell’autoproclamato “genio del ghetto” siano ancora da esplorare, che non sarà una meteora e che nel futuro darà ancora grandi soddisfazioni per cui, sì, il disco mi è piaciuto e mi aspetto ancora di meglio dal prossimo.

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