TWO GALLANTS, “The Scenery of Farewell” (Saddle Creek, 2007)

I Two Gallants (da un racconto di James Joyce,”I due galanti” appunto, di “Gente di Dublino”), interrompono il silenzio discografico seguito ai buoni riscontri (di critica soprattutto) del precedente “What The toll tells”, dando alle stampe un ep di cinque pezzi, “Scenery of Farewell”, che sfiora quasi la mezz’ora di durata ed anticipa di qualche mese l’album vero e proprio, il terzo per la band di San Francisco, che dovrebbe vedere la luce in autunno. Le canzoni sono state composte durante il l’ultimo tour e poi registrate a San Francisco nel gennaio di quest’anno con l’apporto fondamentale di un terzetto d’archi (violino, violoncello e contrabbasso).

Le peculiarità stilistiche di questo gruppo non mutano poi molto: nella sostanza siamo sempre di fronte ad un country-folk disadorno e pungente (a tratti fin troppo ortodosso nella forma) dalla vocazione intrinsecamente narrativa. I Two Gallants cercano infatti nelle loro spesso e volentieri lunghissime canzoni di rinnovare e attualizzare la lezione di grandi maestri della tradizione folk americana come Pete Seeger e Woody Guthrie, srotolando la pergamena screpolata di interminabili e polverosi romanzi orali. Le esperienze più prossime a questo approccio risultano oggi soprattutto Bonnie Prince Billy, Bright Eyes, Devendra Banhart e Bill Callahan, a tratti forse i Wilco. Di loro i Two Gallants ci mettono una severità quasi ieratica e una veste frugale e pensosa che probabilmente nelle passate produzioni era emersa solo a sprazzi.

Sin dal titolo questo “Scenery of Farewell” si configura come un album fatto di addii, di partenze e di lontananze, di frontiere invisibili in cui ad emergere è soprattutto la voce di Adam Fontane, vibrante e corrugata come una corteccia incisa da cicatrici profonde, e la sua chitarra, ruvida e dura come il pane secco. Colpisce l’iniziale “Seems like home to me”, con i suoi cori rituali quasi gospel e la sua tellurica progressione, così come “All your families loyalties” e “Ginger on”, canzoni nude, scalze, verrebbe quasi da dire francescane, canzoni in cammino come viandanti o pellegrini solitari che appartengono solo al loro viaggio attraverso le pieghe di un’America che già Dylan, Young e Cash avevano saputo attraversare e raccontare. Nelle preghiere e nelle parabole di “Lady” e “Up The Country” affiora invece un songwriting che necessita forse di ulteriori affinamenti stilistici e di una maggiore caratterizzazione della cornice strumentale, troppo monotona e uniformemente schiacciata su un soliloquio che non riesce a schiudersi del tutto. Il futuro album, che ha buone possibilità di bissare e incrementare il successo del suo predecessore, saprà fornire senz’altro in questo senso indicazioni più dettagliate.

(Francesco Giordani)

14 settembre 2007

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *