THE GOOD THE BAD AND THE QUEEN, The Good The Bad And The Queen (Parlophone / EMI, 2007)

“The Good, The Bad & The Queen” è un album che potrebbe essere raccontato con immagini. Quelle che lo rappresentano è il confronto tra Damon Albarn sbarazzino nel retro di copertina di “The Great Escape” con degli occhialini che oggi farebbero ridere i polli e quello in una foto di oggi di quelle che accompagnano di solito i comunicati stampa, con lui assieme agli altri tre reduci del band con un’espressione contrita, adulta, barba incolta e faccia di chi ne ha viste tante.

Oppure si può scrutare la normalità domestica che trasmette il video di “Kingdoom Of Doom”, una rimpatriata solita di quattro amici un po’ delusi dalla vita ma conquistati da quello che stanno cucinando; scorci di maturità e mestizia, di difficoltà con il dovuto coraggio quotidiano, di gioco e di solidarietà maschile.

Le tracce di “The Good, The Bad & The Queen” trascorrono come un fuoco che consuma, che brucia lento, come quelle fiamme delle illustrazioni di Doré che Simonon ha voluto in copertina, con Londra che brucia ma che non brucia velocemente come ai tempi dei Clash. Sono fiamme eterne nella loro rappresentazione ottocentesca, lontane da quelle moderne, sfuggenti ed essenziali con cui Stanley Donwood ha incorniciato l’anno scorso “The Eraser” di Yorke (però stessa immagine… sarà un caso?). E in quella Londra assediata dal fumo ci si immagina un uomo che cammina lento lento e che fischietta il motivetto di “Herculean”, e poi lo canta anche con quell’indole dolente di Albarn. Un ululato alla vita, un invocazione al destino.

Si direbbe quasi che da quel non luogo emergano anche edifici orgogliosi, palazzi aristocratici che stanno per essere inghiottiti ma che sono ancora lì, imperterriti, come quella chitarra tremolante che emerge nel finale di “Three Changes” e che, titubante ma fiera, svetta chiara e cristallina.

Poi dappertutto, basta fare una classica ricerca online, si troveranno su questo disco le informazioni che servono, quelle che non abbiamo dato qui: il supergruppo, il dub malinconico, la bassa fedeltà un po’ afro e un po’ cinematica, il brit pop dei quarantenni, ’esticazzi e tutte quelle altre considerazioni che ci stanno, certo che ci stanno, ma provate ora a scorgere più indietro.

Per capire “The Good, The Bad & The Queen” non bastavano solo le immagini che avevamo un po’ tratteggiato?

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