NEIL YOUNG, Live at Massey Hall (Reprise / Wea, 2007)

Certe operazioni discografiche lasciano davvero a bocca aperta. Insomma, di live o best of buttati lì per aggiungere un capitolo nella discografia di chicchessia, magari dopo neanche un paio di album, ne hanno le palle piene (e le tasche vuote) anche i fan più ciechi. Ma ogni tanto gente preziosa come Dylan si inventa la Bootleg Series e uno vorrebbe che ne uscisse un volume alla settimana. C’è un’altra categoria di musicista, assai pericolosa: il prolifico-meticoloso, quello che raccoglie personalmente e cura con attenzione ognuna delle sue (innumerevoli) registrazioni. Neil Young, per fare un esempio, ha i cassetti pieni zeppi di chissà quali tesori accumulati con il passare del tempo. Le discussioni riguardanti la pubblicazione dei suoi famosi Archives si protraggono da qualche decade a questa parte, ma Young, perenne insicuro ma anche furbetto, ha sempre rinviato la fatidica data.

“Live at Massey Hall” è il secondo volume degli Archives, dopo il possente “Live at the Fillmore East” uscito alla fine dell’anno scorso. Lo segue anche in ordine cronologico: il primo documenta un’esibizione del 1970 con i Crazy Horse, il secondo la data del 19 gennaio 1971 del “Journey through the past solo tour” del ’71, e si piazza tra “After the gold rush” e “Harvest”. Un’altra analogia tra Archives e Bootleg Series, ora che finalmente se ne possono fare, è che si tratta sì di grandi album, ma soprattutto di magnifiche istantanee che catturano un determinato periodo, un preciso momento nella carriera dell’artista in questione. È prevalentemente la rilevanza storica a farne dei documenti importantissimi, che celano dietro la musica una quantità innumerevole di spunti e di aneddoti.
“Live at Massey Hall”, oltretutto, ha ancora più storie da raccontare del già importantissimo “Live at the Fillmore East”.

Neil torna finalmente a casa, nel natio Canada, dopo aver già scritto, appena ventiseienne, alcune grandi pagine della bibbia del rock’n’roll: da solo, con i Crazy Horse, e con un’allegra (ma non troppo) combriccola a nome Crosby, Stills, Nash & Young. È a pezzi, stanchissimo. Sente il bisogno di salire da solo sul palco, di non dividere con nessuno la scena, di lasciare l’elettrica nella custodia e imbracciare l’acustica, o al limite sedersi al pianoforte. Rifiuta di seguire il consiglio del suo storico produttore David Briggs, al quale è legato da un rapporto di amore/odio: decide di non pubblicare questo album live, di qualità eccezionale secondo Briggs, che, infuriato, non lavorerà con il canadese per un bel po’. Neil, passando da Nashville pochi giorni dopo, radunerà un gruppo di musicisti locali e inciderà i nastri che diventeranno “Harvest”. Il concerto alla Massey Hall diventerà uno dei suoi bootleg più amati e diffusi. Riascoltandolo dopo tutto questo tempo, Young deve aver pensato che dopotutto (l’ormai defunto) Briggs poteva non essere poi così tanto dalla parte del torto.

Di cosa debba aver rappresentato assistere a un concerto del genere, dopo l’ascolto dell’album, se ne ha solamente un vago sentore. Sembra letteralmente inconcepibile che la gente seduta alla leggendaria Massey Hall di Toronto quella sera abbia potuto sentire per prima una pietra miliare come “The needle and the damage done”, o l’aspra, dolente “Old man”, o l’autobiografica “A man needs a maid” (“I was watching a movie with a friend, I fell in love with the actress”, ovvero Carrie Snodgress, sua compagna all’epoca) che sfuma in una spizzicata versione pianistica di “Heart of gold”, tutte composizioni che finiranno in Harvest. O pezzi che ricompariranno anni più tardi, come “Journey through the past” e “Love in mind” (in “Time fades away”), oppure “See the sky about to rain” (nell’incommensurabile “On the beach”). Sono anche tante le novità discografiche assolute: la sbarazzina, incantevole “Dance dance dance” e una “Bad fog of loneliness” che affonda le radici nel country-folk più colto, non sono mai apparse prima. Così come le riletture acustiche di due grandi inni elettrici come “Cowgirl in the sand” e “Down by the river”, che di solito assommate occupavano 30 o più minuti mentre qui sfiorano gli 8, a dimostrare che sotto la spessa coltre intessuta dagli assoli Young nasconde molto spesso delle vere meraviglie. Perfino due successi di CSN&Y, come l’immortale “Helpless” e la politicissima “Ohio” (che però risente un po’ della mancanza dei tradizionali controcanti), non perdono in termini di freschezza e impatto anche se opportunamente spolpate. Già così si tratterebbe di una delizia assoluta, aggiungiamoci una manciata di pezzi tratti da “After the goldrush”, non esattamente il peggior disco del canadese, e il tutto entra nel regime dell’incredibile.

Sembrava veramente improbabile che il secondo capitolo degli Archives potesse superare il primo, e invece. Chiaramente si tratta di due artefatti completamente differenti, l’uno mastodontico l’altro essenziale, l’uno urticante l’altro sommesso. Sommesso, ma non malinconico: Young è distrutto dopo mesi e mesi diviso tra l’attività con due band diverse, Crazy Horse e Stray Gators, un supergruppo e un prezioso chitarrista caduto nel vortice dell’autodistruzione, ma si sente a casa sua, la sua situazione sentimentale è rosea (cosa assai rara) ed è prolifico come non mai. “Live at Massey Hall” ci parla di un Neil Young di cui finora sapevamo poco, che non avevamo ancora scoperto. “Live at Massey Hall” si dimostra grande come la storia che ci racconta.

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