Flippaut Festival (Idropark, Milano) (22 luglio 2006)

La nostalgia prende la gola. Parcheggio la macchina davanti all’Idroscalo, proprio dove un mese prima avevo visto il mio ultimo festival, il MiAmi. Sono cambiate molte cose, da allora. Manca una persona, ma il clima della giornata è lo stesso: caldo, rilassato, disteso, invischiato nella birra.

E la birra non è la bevanda adatta da sorseggiare mentre si ascoltano i Nouvelle Vague. Mi siedo sul prato, con un minimo di finto rimpianto per essermi perso IG per pochi minuti e Fatboy Slim la sera prima (peccato per Paul Weller, però…), e osservo queste due ragazze francesi in atteggiamento lesbo-chic massacrare in chiave bossanova alcuni classici del punk. E penso che quando le francesi si libereranno dall’obbligo di imitare Jane Birkin sarà ormai troppo tardi,e rimpiango di non avere tra le mani un buon aperitivo. Perché, sì, senza un soft drink adeguato puoi anche sorridere di fronte a “Ever fallen in love?” dei Buzzcocks suonata a quel modo, ma poi le varie “Teenage kicks” e “Love will tear us apart” ti irritano solamente.

Ben altro concerto offre Tom Verlaine, stranamente ignorato dai presenti: mi ritrovo sotto le transenne a guardare in faccia l’uomo che ha scritto un pezzo di storia del rock, ma lui non guarda me. Ha gli occhi persi nel vuoto, concentratissimo sulle note della sua chitarra, su quella sei corde che suona ancora come i mille pettirossi urlanti evocati da Patti Smith. La sua voce compare per pochi attimi e scompare in lughissimi intrecci strumentali senza il minimo supporto ritmico; non vede quasi il pubblico, ringrazia intimidito e se ne va. Non è il concerto che ci aspettavamo, e infatti non tutti gradiscono. A torto.

Un’altra birra, prato. Alessio Bertallot ai piatti, elegante come al solito con le sue fascinazioni nu-soul, crea un clima perfetto, e stringe il cuore di ricordi con “Suona ancora” dei Casino Royale e con la chiusura di “Alle prese con una verde milonga” di Paolo Conte. Un saluto non casuale, visto che stanno per salire sul palco i Gotan Project. Parto molto prevenuto verso una band che mi sembra un fastidioso incrocio tra Buddha Bar e un documentario per turisti ignoranti, ma mi devo ricredere: sono sul palco in dieci e, tra il quartetto d’archi, il pianoforte e il bandoneon, è sempre un gran bel sentire. Il tango è una delle musiche più belle del mondo, rimane sempre un romanzo in tre minuti, anche se sporcato con un’elettronica piuttosto elementare e a lungo andare piuttosto ripetitiva.

E poi, i Massive Attack. Il concerto che tutti mi avevano descritto con un “Sarà una noia mortale, vedrai” e che invece si rivela qualcosa di clamoroso. Basso, batteria, tastiere e una selva di microfoni. Quasi tutto è live, i campionamenti sono ridotti al minimo, come per il tour di “Mezzanine”, non a caso il disco più saccheggiato di un’ora e mezzo di concerto perfetto. 3D attacca con “False flags”, e subito dopo arriva ad affiancarlo Daddy G: è il suo ritorno a dire che la macchina Massive Attack è rientrata nei ranghi, e una “Risingson” cupa e di sconvolgente bellezza lo conferma. Ancora più sorprendente è vedere sul palco una donna dai capelli bianchi, un piccolo angelo che ondeggia su se stessa: ha la voce e il corpo etereo di Elizabeth Fraser dei Cocteau Twins, che ammanta di luce impalpabile una stupefacente “Teardrop”. C’è anche Horace Andy, visione sconvolta di onde spezzate nella circolarità perfetta di “Angel” o nella dilatata “Hymn of the big wheel”; alcune canzoni prendono una forza sconvolgente, diventano giganteschi mostri psichedelici come “Future proof” o “Safe from harm”, mostrano il loro cuore nero (“Karmacoma”, “Inertia creeps”) e liquido (“Black milk”). È tutto perfetto, a parte l’aver trascurato quasi completamente “Protection” e la chiusa affannata e inutilmente brutale di “Group four”, dove Liz Fraser cerca per due volte di buttare fuori la band. Band in stato di grazia, concerto memorabile, attesa per il prossimo “Weather underground” ormai insostenibile.

Mi riprendo a fatica per andare a vedere il DJ set di David Holmes, ma gli orari di chiusura sono inflessibili: cancelli chiusi alle 2, tutti a casa. L’Idroscalo, il tanto ridicolizzato mare di Milano, continua a lasciarmi buoni ricordi. Musicali e non, ma che importa?