RED HOT CHILI PEPPERS, Stadium Arcadium (Warner Bros, 2006)

Prendere un disco doppio dei Red Hot Chili Peppers, per un totale di due ore piene di musica dilazionate in ventotto canzoni, ed affidarlo alle mani di una persona che ha passato ore, pomeriggi, giornate intere ascoltando tutti i loro pezzi fino alla nausea è un rischio che potrebbe produrre effetti catastrofici. Una sbrodolata di proporzioni bibliche. Soprattutto quando la persona in questione, che rischia di autodefinirsi un quasi-fan, ascoltando il disco sente che c’è qualcosa che non va. Nel bene o nel male Kiedis e soci hanno sempre fatto il possibile per esprimere al meglio il loro modo di pensare la musica, senza porsi il problema di essere troppo sboccati, anarchici, chiassosi, o, al contrario, troppo orecchiabili o commerciali. Hanno sempre fatto quello che veniva loro naturale, e dopotutto anche un’uscita del genere sembra dettata dalla stessa mentalità. Il problema è che ascoltando le canzoni di “Stadium Arcadium” mi sono sentito come se stessi camminando su quella linea d’ombra che divide rischiosamente il “commerciale” dal “paraculo”.

Nel primo caso, nessun problema. Dopotutto “Californication” era pieno di belle melodie e ritornelli pop che non hanno minimamente nuociuto ad una delle loro migliori uscite in assoluto. La questione diventa aspra nel secondo caso. Perché se la canzone non prende corpo o non convince del tutto, ora basta metterci un bel ritornello alla volemosebbene, ed ecco una nuova canzone da inserire nella nuova mastodontica uscita scalaclassifiche. Stanno cercando di dare un senso di epico a tutto quello che fanno e la cosa non va affatto bene. Perché alcuni pezzi sono semplicemente dei riempitivi, a volte anche troppo simili fra di loro, mentre altri sono uno scialbo riflesso di quello che sono stati.

Pensano di accontentare tutti, i RedHot. I fan della prima ora, con qualche funk che a volte funziona (“Hump De Bump”) e a volte fa pena (“Tell Me Baby”, secondo singolo non a caso, o l’inutile “Storm In A Teacup”). I fan di “Californication” con alcuni dei pezzi migliori (come la bella title-track). Ma anche quelli di “By The Way”, per i quali non perdono la melodia forzatamente catchy e la produzione esagerata. Accontentano tutti ma alla fine non accontentano nessuno, perché il vero difetto di “Stadium Arcadium” è che c’è troppo RedHot. Difficile ascoltarlo tutto di fila. Difficile ricordarselo bene una volta finite le due ore. E la cosa inquietante è che in origine il progetto era quello di far uscire tre album. Forse sarebbe stata un’idea migliore perché saremmo riusciti a prendere tutto questo effluvio di mezza creatività a dosi limitate, più digeribili e più ponderabili; così invece si fa fatica a capire innanzi tutto che il disco è meglio di “By The Way”. Cosa che sarebbe stata a tutti più chiara con un’opera di snellimento generale.

Prima di tutto tagliare via metà della tracklist: dato che è scientificamente provato che la maggior parte della gente che ascolta musica rimane colpita maggiormente dai primi pezzi, quante persone (persone, non fan) potranno mai far caso allo scipito trittico finale? Oddio, questo forse è un bene. E in quanti potranno notare che “So Much I” (piazzata oltretutto dopo uno dei peggiori pezzi che siano mai riusciti a scrivere, “Animal Bar”, una specie di gemellaggio diabolico con gli U2, da brividi) è meglio di metà delle canzoni del primo disco?
Il secondo snellimento sarebbe quello dei suoni. Ragazzi, ma che fine ha fatto la produzione scarna ma efficace di Rick Rubin? Togliendo tutti quegli orpelli potremmo distinguere le canzoni decenti da quelle basate solo su un ritornello; quelle complete dai mezzi tentativi; quelle utili da quelle inutili. E invece no: “Stadium Arcadium” sfoggia la più patinata produzione di cui sono mai stati capaci, talmente pensata da riuscire ad appiattire tutto.

E poi manca quello che mi fece impazzire per Kiedis tempo addietro: la sua meravigliosa ignoranza. Ora ha imparato a cantare. Avrà fatto un corso, probabilmente. E allora, convinto ormai di riuscire a beccare bene tutte le note che servono, si è illuso di essere un cantante. Ma lui era un istrione. Un esagerato. Un freak. Uno che sognava di diventare il nuovo Iggy Pop (e forse ci è pure andato vicino). Ora è uno che pensa di saper cantare. E’ uno che forse ha capito di non essere più molto credibile mentre parla di sesso e droga, ma che non riesce neanche a raccontare l’amicizia come in “Californication”. Ora c’è “Death Of A Martian”, ispirata alla morte del suo cane.

E se qualche orecchio foderato di prosciutto potrà esaltarsi per il ritorno scattante di Flea in prima linea, io decido di deludermi anche per il sonno profondo che ha colpito Chad Smith durante le fasi di registrazione ed andare a riascoltarmi tutti i dischi solisti di Frusciante (che, pur esagerando su ogni fronte, riesce a piazzare delle perle nascoste come “Strip My Mind” o la coda di un pezzo pur scialbo come “Slow Cheetah”, dimostrandosi il vero motore del gruppo).
Mi dispiace cari miei Red Hot Chili Peppers, ma di un disco così non se ne sentiva il bisogno.
E me ne rattristo.

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