KESSLER, Un altro giorno d’amore (Alternative Produzioni / Venus, 2006)

Se i ragazzini, fuori fuoco e senza volto, della copertina di questo “Un altro giorno d’amore”, debutto dei piemontesi Kessler, avessero immaginato che ad attenderli stava il mondo adulto, il suo vuoto e la sua paranoia, probabilmente non avrebbero voluto crescere. E allora se ne stanno lì, intrappolati in una foto senza essere meglio definiti, mentre i loro corrispettivi adulti urlano il loro disagio su fondi di melodia e rumore.

I Kessler tentano di unire questi due mondi contrapposti, con l’aiuto di Riccardo Tesio dei Marlene Kuntz alla produzione, ma vi riescono solo per metà disco: nella prima parte sono lucidi, compatti, ispirati e ben poco derivativi; dalla metà in poi sono l’ombra di loro stessi, banali, forzati e stereotipati come il peggiore cliché. Ed è un peccato, perché all’inizio dimostrano di saper suonare, e molto bene, anche: la carica di “Teoria del vuoto”, la citazione del secondo Brizzi presente nella tensione erotica di “Bastogne”, le vibrazioni industriali di “Sintomi” e la lentezza minacciosa di “Come mosche” raccontano di una band che getta un efficace ponte tra i Marlene di “Che cosa vedi” e i Nine Inch Nails di “With teeth”.

Poi, la prima avvisaglia di cedimento: l’impostazione vocale di “Strani giorni” ricalca pedissequa quella di Godano, ed é l’ultimo momento buono prima del crollo. Da “Diva” in poi, ai Kessler subentra una band da oratorio, di quelle che sfogano nervi e ormoni scrivendo canzoni a cui guarderanno con imbarazzo negli anni a venire. A parte il bel hook melodico di “Altromondo”, è una strage: le urla forzate di “Verità assolute”, lo scimmiottamento totale dei Marlene Kuntz in “Lentamente” (un ritornello da fucilazione…), le banalità dei testi… È un peccato, davvero, perché il talento c’è; la capacità di essere originali, volendo, anche. Ma purtroppo, forse, i Kessler speravano che i critici avrebbero ascoltato solo la prima metà dell’album per trarne un giudizio buono. E invece non c’è i-Pod o download che tenga: esiste ancora chi i dischi li ascolta dall’inizio alla fine. E davanti a opere come queste, pur riconoscendone onestà e capacità, riesce solamente ad irritarsi.

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