CASTANETS, Cathedral (Ashtmatic Kitty, 2004)

Se dovessimo dare particolare credito ai primi vagiti di questo ventunesimo secolo saremmo costretti a circoscrivere il substrato sonoro in un ibrido nel quale si fondono e completano urgenze prettamente post-industriali (figlie del cyberpunk, dell’industrial, dell’ossessione tecnocratica) con le scorie ultime di un’attitudine agreste, non propriamente bucolica – in quanto succube comunque dell’ombra angosciosa della controparte – ma comunque legata alla terra nel senso più stretto del termine.

L’esperienza musicale dei Castanets di San Diego si muove sulle linee direttrici dell’ultima ipotesi strutturale: nel loro esordio è impossibile non riscontrare la prassi compositiva di personaggi quali Will Oldham/Bonnie Prince Billy e l’influenza di una band come i Black Heart Procession. Eppure l’attacco dell’album, dato da “Cathedral 2 (Your Feet on the Floor Sounding Like Rain)”, richiama alla mente più che altro le follie percussive e le straziate ipotesi musicali degli Xiu Xiu o dei Liars dell’ultimo “They Were Wrong, So We Drowned”. Suoni dilatati, incedere funereo, tintinnii e freakerie di sottofondo, una voce che sembra arrivare da un mondo “altro”, organo in bella evidenza, stramberie per moog, tuoni e rievocazioni del soffio del vento formano una piccola, disturbata elegia che già permette di inquadrare in pieno le intenzioni della band. Una band che nei momenti più ispirati appare tanto autoritaria nella sua imposizione da meritarsi l’appellativo autorevole.

Il senso di dispersione e di inadeguatezza viene espresso sia in un paio di fugaci digressioni – impossibili definirli anche solo lontanamente abbozzi – sia in quel piccolo capolavoro che risponde al nome di “Industry e Snow”, dalla ritmica sostenuta che viene attraversata da suoni di campanelli prima che irrompano armoniche a bocca, basso e batteria. Il senso del brano passa dunque dal folk, al folk-rock con intenzioni psichedeliche fino a sfibrarsi in una serie di borborigmi e rumori siderali che finiscono per dissolversi nell’attacco di “You Are the Blood”, ipnotica e fumosa rievocazione demodé persa tra chitarre surf e fiati jazzy adattati a un’opera di Lynch; anche qui la struttura sonora è destinata a una metamorfosi rumorista, tra boati, sfregare di ferri e percussioni immotivate, ma lo spettrale corno torna a farsi sentire e a dominare la scena prima della fine. In un mondo dominato dal caos l’unico modo per non farsi assoggettare è cercare di comprendere il senso più estremo del caos stesso, e i Castanets sembrano sinceramente sulla buona strada. Come quando si abbandonano alla più dolente e lunatica – nel senso di “ispirata dalla luna” – delle ballate, quella “No Light to Be Found” che potrebbe facilmente spalancar loro le porte del culto. Proprio quel culto e quella fede mistica che del combo sembra essere ispiratore: nulla di strettamente religioso, sia chiaro, almeno non nella lettura che ne faccio io. Un sentimento profondo, immateriale, un senso di appartenenza cosmico. Quello stesso senso di appartenenza che non è arduo ritrovare nelle note dei Black Forest/Black Sea, dei già citati Black Heart Procession, di Devendra Banhart, delle Cocorosie, dei Vetiver, di Christina Carter, di Smog, di Microphones/Mount Eerie, di Will Oldham.

A volte la struttura musicale si fa troppo palese e il gioco del cliché diventa difficile da evitare, come nella pur vibrante “Three Days, Four Night” o nella pacificante “As You Do”, ma è un difetto che viene naturale perdonare sull’istante. Il folk e il country, generi identitari e reazionari per eccellenza, vengono dunque riletti e rivoluzionati all’interno di un discorso autoriale già fin troppo delineato – e bisognerà aspettare conferma dal futuro per innalzare il nome dei Castanets da “promesse” a “certezze” -. Un bel modo per affrontare l’autunno e l’inverno, non c’è che dire…

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