Flippaut Festival, Arena Parco Nord (Bologna) (1 giugno 2003)

di Riccardo Finarelli  e Raffaele Meale 

Nel caldo torrido di un pomeriggio di inizio giugno mascherato da ferragosto arriviamo all’ Arena Parco Nord, conosciuta per l’ MTV Day o l’Independent Days Festival. Sono le 16, i cancelli aperti dalle 11 hanno già accolto migliaia di persone stoicamente assiepate ed essiccate pur di vivere il concerto come si deve.

Al nostro arrivo sta finendo Evan Dando, accompagnato solo dalla sua voce e dalla chitarra e prima di lui hanno già suonato gli Athlete. Il primo gruppo capace di godere sulla stima dei fans ad esibirsi sono i Turin Brakes; suonano poco meno di un’ora, proponendo un mix di vecchie canzoni, in parte riarrangiate per risultare più accattivanti nella dimensione live (spicca tra queste “The Optimist”) e presentando i brani del nuovo album, singolo (“Pain killer”) logicamente compreso. La loro musica presenta schitarrate energiche, cori armonizzati, finali stoppati, frammenti musicali rumorosi (in pratica tutto ciò che può piacere ad un pubblico come quello del Flippaut); propongono una scaletta molto ascoltabile, senza mai sbilanciarsi, senza mai rischiare ed osare nulla. Ma restano comunque assai apprezzabili per il notevole affiatamento e per le rilassanti capacità melodiche.

Seguono, in un ordine a mio avviso incomprensibile, i Dandy Warhols che, svogliati e decisamente in serata no, non riescono a far cantare il pubblico nemmeno con la celeberrima e martellante “Bohemian like you”. Molto ripetitivi, decisamente semplicistici, e davvero privi del minimo colpo di genio che possa stupire o catturare l’ attenzione. In una parola: deludenti.

A questo punto del festival l’ arena è davvero già piena, le collinette si svuotano e il prato-cemento-ghiaia di fa pieno, la temperatura è tornata a livelli umanamente sopportabili. Ed arriva Skin. Con i capelli, e una grande energia, propone alcune canzoni del progetto solista, salta, ringhia, canta con foga, forse per questo almeno un paio di volte si tiene al di sotto delle tonalità originali dei pezzi, altre volte arrivando a sfiorare la stonatura… Un’esibizione in versione solista comunque positiva, della quale ho avuto modo di apprezzare soprattutto le rivisitazioni del repertorio degli Skunk Anansie, tra le quali ha avuto un ruolo di spicco “Secretly”, capace di risvegliare l’istinto animalesco del pubblico. La ragazza se ne va dopo un’oretta saltellando, tra gli applausi del pubblico, appagato da tanta furia.

La sensazione che sia un concerto di Ben Harper più che un festival era netta fin dall’ acquisto del biglietto (Ben Harper and Innocent Criminals + Special Guest), e in effetti tutti gli altri gruppi hanno concluso le loro performances prima delle 21 – e per un festival musicale questo appare piuttosto sorprendente -. Passano 20 minuti ed entra Harper con la band: la folla ora si fa realmente pressante. Il pubblico urla, le luci si accendono, Ben saluta. Se appariva logico pensare che il concerto si sarebbe aperto con “With my Own two hands” (visto il successo ottenuto dal singolo di lancio) arriva la prima sorpresa: in effetti l’intro è reggae, ma dopo pochi secondi ci si rende conto di trovarsi davanti a “Excuse Me Mr.” in una versione stravolta, intensa, emotivamente coinvolgente. Se nel 2001 si cominciava con “Oppression/Get Up Stand Up”, “Excuse Me Mr./War” mostra chiari riferimenti alla politica statunitense e al contempo va ad omaggiare quel Marley tanto amato da Harper. Rispetto alla precedente tournée sul palco si muvono sei elementi, 2 chitarre (Ben compreso), basso, batteria, percussioni, tastiere.

Il concerto non concede un attimo di tregua: i brani si susseguono uno dopo l’altro, mescolando assoli, accelerazioni, schizzi hard-rock, fraseggi reggae, tra “Welcome to the cruel world” e una “Burn to Shine” nella quale la chitarra di Harper arriva a simulare il beat-box umano dell’ultimo tour. Una versione tirata ed hendixiana (se così si può dire) di “Ground on Down” e molti pezzi dell’ultimo lavoro, senza particolari stravolgimenti o improvvisazioni. Ci sono i dovuti spazi anche per i comprimari, in primo luogo Juan Nelson, bassista mastodontico e sorprendente, e Leon Mobley, alle percussioni – tra l’altro suonate dallo stesso Ben in “With My Own Two Hands”. Il pubblico è tutto suo, lui lo ringrazia a più riprese e lo fa cantare in un divertente “scambio di vocalizzi”. La band ha l’aria di divertirsi e ripropone ogni cosa che possa far ballare la folla festante: “Steal My kisses”, “Temporary Remedy”, “Brown Eyed Blues”, “Burn One Down”, con quest’ultima a chiudere la prima parte del concerto dopo quasi un’ora e mezza.

La seconda parte vede Harper da solo sul palco, in versione acustica: l’arena si fa ossequiosamente silenziosa, creando un’atmosfera rispettosa e carica di pathos, sulla quale scorrono le varie “Walk Away”, “Waiting on an Angel” e “When it’ s Good”. Torna sul palco, tra gli applausi, il resto della band che porta a Ben, ancora seduto, una percussione (thiele tongue drum), mentre la batteria è sostituita da tamburi rituali, in una stasi musicale che ha in sè qualcosa di sacrale, di ieratico. E’ “Blessed to be a witness”, eseguita con un basso e cinque percussioni, forse il punto più alto del concerto, che si chiude con il finale preferito di Harper, “Like a King/I’ll rise”. La prima è eseguita in versione rock mentre “I’ll rise” è, in pratica, un canto a cappella con 30 mila persone (persona più persona meno) impegnate ai cori.

Ancora una volta mi trovo a dire che è stato il concerto perfetto, da ogni punto di vista, musicale ed emotivo. Ancora una volta Ben, Juan, Leon hanno saputo stupire, divertire, emozionare. Direi che ci vediamo ad ottobre, Ben.