JOHN CALE, Paris 1919 (Reprise, 1973)

Sotto il nome Velvet Underground agirono, sicuramente, menti geniali, capaci di dimostrare la loro grandezza anche alla fine dell’esperienza comune.

Se il lavoro solista di Lou Reed è arcinoto e acclamato un po’ ovunque (e album come “Transformer”, “Rock’n’roll Animal” e “New York” meritano in pieno questo plauso) e Nico sta vivendo una doverosa riscoperta postuma – quanti artisti possono vantare un’opera all’altezza di “Desertshore”? – il genio poliedrico e instancabile di John Cale continua a giacere purtroppo nell’ombra.

Tornato improvvisamente alla ribalta nel 1990 grazie alla pubblicazione di “Songs for Drella”, splendido album scritto a quattro mani con Reed e dedicato alla figura di Andy Warhol, il Nostro è immediatamente tornato nel dimenticatoio, artista troppo incoerente per conoscere un apprezzamento duraturo da parte del pubblico.

Eppure l’opera solista di Cale presenta gemme di assoluto valore, come per l’appunto questo “Paris 1919”. Uscito nel pieno dell’estetismo decadente tanto caro alla generazione glam, questo album ne è intriso, pur viaggiando su strade totalmente diverse rispetto a quelle di autori come Bowie o i T. Rex di Marc Bolan. L’estetismo di Cale è ricco di riferimenti colti, che vanno dalla musica classica (come l’improvviso irrompere dell’organo nella sorridente “Child’s Christmas in Wales”) alle reminiscenze barocche e celtiche proprie della sua natura gallese.

L’eleganza e la purezza di “Hanky Panky Nohow” mostrano il volto più dolce e tenue di questo artista la cui grandezza è spesso relegata a quell’indiavolata e squarciante viola elettrica che dà linfa vitale a “Venus in Furs”, capolavoro orgiastico dei Velvet Underground. I rimandi a quell’avventura irrompono in realtà solamente nella sfrenata “Macbeth”, r’n’r venato di country, sporco e spezzato e nella delicata ballata “Andalucia”, toccante e che risulta impossibile non immaginare narrata dalla voce salmodiante e vagamente teutonica di Nico.

Il resto è l’incedere orchestrale e acustico dell’eterea “The Endless Plain of Fortune”, dal crescendo irresistibile, la perfezione pop della title-track, sorretta dagli archi e dai toni bassi di una tromba, lo stralunato e divertito saltellare di “Graham Greene”, la chitarra country ad accompagnare l’organo prima dell’irrompere di basso e batteria di “Half Past France”, il sussurro delicato e vagamente paranoico di “Antarctica Starti Here” che acquista forza in un crescendo perfettamente a metà tra la musica da camera e il rock, prima di estinguersi in un ossessivo pianoforte. Una delle più riuscite riletture del pop, che acquista un fascino e un’eleganza troppo spesso ingiustamente negatogli. Eleganza e raffinatezza che Cale spargerà sempre nella sua opera, sia quando affronterà il punk distorto in “Helen of Troy”, sia quando se la vedrà con le spettrali e lugubri atmosfere di “Music for a New Society” (il suo secondo capolavoro), sia quando infine, rileggerà in una veste acustica, dal vivo, la sua opera, nello splendido live “Fragments of a Rainy Season”.

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