THE INCREDIBLE STRING BAND, The Hangman’s Beautiful Daughter (Elektra, 1968)

Se si vuole ricercare il disco manifesto del breve e magico periodo del folk psichedelico britannico, non si può fare a meno di imbattersi in questo duo geniale. Dietro il nome Incredible String Band si muovevano infatti le personalità eccentriche e stralunate di Robin Williamson e Mike Heron – in principio la band era un trio, con l’accompagnamento del banjoista Clive Palmer, ma funzionò con tale line-up solo per l’esordio omonimo del 1966 -.

I due furono tra i primi a comporre sfruttando strumentazioni esotiche e del tutto non convenzionali come il sitar, il gimbri, il flauto di pan, il mandolino, l’arpa, il chahanai, e riuscendo a farli convivere con chitarra, armonica, hammond, pianoforte e dulcimer. La struttura dei brani è sconnessa, variopinta, saltellante, pronta ad aprirsi a voli pindarici e trip lisergici e a ripiombare nella stasi: la ballata acustica “Koeeoaddi There” è spezzata da percussioni sottili e sottolineata da un sitar spiazzante e da uno scacciapensieri che sovrasta, più che accompagnare, i delicati e complessi arpeggi di chitarra, la voce ricorda i madrigali e i canti medioevali, i testi descrivono sogni colorati sovrapponendoli a memorie, ricordi, schizzi impressi nella mente.

Nel duo, che non compone mai insieme, viene quasi naturale preferire il genio lisergico di Williamson, folle, alieno a qualsiasi compromesso commerciale, onirico seguace del cut-up. Sue, oltre al già citato patchwork della canzone d’apertura, “The Minotaur’s Song” che mescola marcetta militare, danza cortigiana, cabaret, rumorismi (i versi del Minotauro logicamente) e al contempo preziosismi vocali. “Witches Hat” che celebra l’amore per i canti medioevali (come altre personalità di spicco del periodo, primo fra tutti il cappellaio matto Syd Barrett) e dove spicca l’uso del flauto. “Waltz of the New Moon”, valzer per carillon su cui si eleva il canto salmodiante di Williamson, in un crescendo che a tratti evoca preghiere indù e vocalizzi arabeggianti. “The Water Song” con i suoi echi celtici, quasi magici, esoterici, e l’assolo di flauto prima che tutto si spezzi nell’acqua e nelle percussioni, lesto però a tornare a galla e a riprendere il cantato. “Three is a Green Crown”, vera e propria preghiera capace di far intravedere le rive del Gange con le imbarcazioni che trasportano i cadaveri verso la purificazione e “Nightfall”, dolce canzone di chiusura.

Dal canto suo a Heron basterebbe anche solo l’aver composto “A Very Cellular Song”, tredici minuti di follia, insieme di generi e ispirazione, che passa dal folk al cajun al country fino ad arrivare al gospel e ai cori ecclesiastici, collage sonoro tra i più arditi di tutti i tempi, perdita di coscienza e impossibilità all’assuefazione. E sempre sue sono la coinvolgente “Mercy I Cry City”, divertente ballata folk e la sofferta e dolente “Swift as the Wind”, che ricorda ballate western e tradizione anglosassone, mentre echi di mondi lontani si fanno strada in sottofondo.

Un album miracoloso (tra l’altro prodotto da quel Joe Boyd che di lì a poco lavorerà col genio di Nick Drake e che vanterà produzioni con i Fairport Convention, Richard Thompson e i R.E.M.), pietra miliare della musica folk e fulgida dichiarazione di libertà, anarchia e indipendenza. Se ancora non ce l’avete, sapete cosa comprare.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *