TOM WAITS, Alice (Anti, 2002)

Da quando esordì, nell’ormai lontano 1973, Tom Waits si è cucito addosso una figura fumosa: il suo personaggio è uno di quei vecchi ubriaconi da bettola tanto amati da Charles Bukowski, uno di quei vagabondi persi per le metropoli del sud degli States, come Jack Kerouac e Neal Cassidy. Ma oltre a questo, Tom Waits è soprattutto un fine esteta musicale, innamorato del jazz, del blues e della storia culturale statunitense. Ed è, oltretutto, un maledetto geniaccio. Uno di quegli artisti che mi mandano in confusione quando arriva l’atroce domanda “qual è il suo album più bello?”. Perché ogni album risplende di una luce particolare, suadente e fascinosa.

E non è da meno, sotto questo punto di vista, questo “Alice”, una delle due creature partorite dalla mente dell’uomo di Pomona, California. Al contrario di quanto si possa immaginare, il soggetto dominante di “Alice” non è il personaggio del celebre romanzo di Lewis Carroll, folle e visionario viaggio nei meandri del sogno, bensì Alice Littel, la bambina che ispirò la stesura e per la quale il romanziere anglosassone provava una sorta di ambigua ossessione.

Ciò che si nota fin dal primo ascolto è la quasi totale assenza di chitarre elettriche, presenti solo in “Everything You Can Think” e “Table Top Joe”. Il potere passa in mano agli strumenti acustici, con gli archi in grande evidenza, il che permette a Waits di gettarsi in una sorta di danza macabra, sghemba e decadente, con splendide ballate nello stile di Kurt Weill e reminiscenze anni ’40. I testi esplorano con lucidità e poesia una mente pervasa dal sogno e perseguitata dalla propria esistenza, come nell’eccezionale ed emozionante “Watch Her Disappear”. I toni sono adagiati su una dolcezza malinconica di cui è impossibile non innamorarsi, e raramente si ritrova la sferzante energia della celeberrima e profonda voce di Waits, qui relegata ad episodi isolati come la stralunata “Everything You Can Think” e la caustica, crudele e meravigliosamente ubriaca “Kommienezuspadt”, ritmata danza dell’inverosimile.

L’intero album è scritto a quattro mani con la moglie Kathleen Brennan, come da tradizione da “Franks Wild Years” del 1987. Il viaggio si chiude sulle note di “Fawn”, breve suite strumentale. Una ventata di dolcezza e un’ulteriore dimostrazione della grandezza di questo personaggio assurdo, di quest’artista incapace di vendere se stesso, sempre coerente. Un album da avere ad ogni costo, rara perla di questo 2002.

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