FABRIZIO DE ANDRE’, La Buona Novella (Ricordi, 1970)

Può un ateo permettersi di parlare della vita del Cristo, dalla sua venuta al mondo alla sua fine sulla croce? Per quanto concerne la musica italiana la risposta non può essere che affermativa. Nel 1970, nel pieno della contestazione studentesca e operaia, nel pieno del fermento politico, della lotta di classe, l’artista più controcorrente, il più esposto (insieme a Pasolini) alle critiche della chiesa e del pensare borghese, compone un’opera che parla del baluardo principale del cattolicesimo. E lo fa senza mezzi termini e senza compromessi, riservandosi accuse sia da destra che da sinistra. Da destra per la visione che dà di Gesù, molto lontana dall’aura di onnipotenza e divinità cara alla chiesa più bigotta, da sinistra per avere apparentemente abbandonato la lotta politica.

In realtà De Andrè dimostra ancora una volta il suo spirito rivoluzionario, anarchico e dalla parte dei diseredati. La sua Maria è una bambina strappata agli affetti familiari e venduta come moglie (come schiava) per essere diventata donna, colpevole di avere le mestruazioni. Venduta a Giuseppe “un reduce dal passato, falegname per forza, padre per professione”, che trova in lei solo un’altra bocca da sfamare, diventa madre di un uomo a cui il destino ha prefissato una catarsi contro la quale lei non può opporsi.

“La Buona Novella” è il capolavoro di Fabrizio, l’album leggendario, dove si condensano straordinariamente sacro e profano, dove si ritrova la già (de)cantata elegia degli umili e si sferzano con durezza e asprezza gli abusi del potere (addirittura De Andrè riscrive i suoi personali dieci comandamenti) dove coesistono amore e odio, e soprattutto dove viene sì riletta la figura del Cristo, uomo puro mandato a morire da una società borghese, ma dove trova spazio la figura di Maria, non più Madonna, ma semplicemente donna privata del suo più grande tesoro; attraverso la dolcezza della musica e l’asciuttezza dell’eloquio si crea così una psicologia di donna, secondi i canoni della rivoluzione sessuale del decennio appena passato.

Tutte le canzoni si stagliano nella memoria con una forzaindimenticabile e una dolcezza incredibile, ma vale la pena ricordare fra queste “L’infanzia di Maria”, “Il sogno di Maria”, la straordinaria e trascinante “Via della croce” («Perdonali se non ti lasciano solo, se sanno morir sulla croce anche loro, a piangerli sotto non han che le madri e in fondo son solo due ladri» canta De Andrè riferendosi ai due ladroni morti in croce) e la straziante “Tre madri” dove viene cantata la disperazione delle madri dei ladri, loro sì costrette a vedere i propri figli morire per sempre («Lascia noi piangere chi non risorgerà più della morte») contro cui si fa chiaro il dolore di Maria, in realtà anche lei privata per sempre del figlio, diventato ormai padre di tutta l’umanità («Non fossi stato figlio di Dio t’avrei ancora per figlio mio»).

Un’opera musicale che è in realtà poesia pura, dimostrazione palese di quanto manchi all’Italia e al mondo il genio di De Andrè, in questo spazio sempre più vuoto da tre anni a questa parte che è la nostra anima.

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