GEORGE HARRISON, All Things Must Pass (EMI Records, 1970, rist. 2001)

Non si può tacere l’uscita della ristampa del monumentale triplo di Harrison, uscito in origine nell’ormai lontano novembre 1970. Forse per sottolineare questo lungo arco di tempo passato, la cover originale viene ripresentata con smaglianti colori, abbandonando l’affascinante bianco e nero, con una scelta stilistica a mio avviso discutibile. Probabilmente ci sarà l’onnipresente marketing di mezzo. Passiamo in ogni caso a raccontare il contenuto di quello che è senza ombra di dubbio il capolavoro dell’ex chitarrista solista dei Beatles, in grado di rivaleggiare in bellezza con “Imagine” e “Plastic Ono Band” di Lennon e perfino superare la maggiorparte delle opere di McCartney, ricche di gemme inestimabili ma mai completamente omogenee.
“All Things Must Pass” (un titolo che ha impresso il trauma da separazione post-Beatles) è uno di quei dischi che possiedono un’alchimia magica, pieno di passione, di misticismo, attraversato da una vena creativa irripetibile. Ascoltandolo, si rimane gioco forza sorpresi della potenza espressiva di George, relegato sempre in secondo piano durante l’avventura del gruppo di Liverpool. Sicuramente “Quei Due” dovevano essere dei tipi da prendere con le molle, troppo impegnati a superarsi a vicenda per prestare attenzione al timido e più giovane Harrison. Solo verso la fine dell’epopea si erano notate importanti composizioni del chitarrista, fra le quali “Here Comes the Sun” e “Something”, ambedue stelle accecanti nel cielo di “Abbey Road”.

E’ chiaro quindi che Harrison aveva accumulato una buona quantità di canzoni e che aspettava solamente il momento per pubblicarle. With a little help of many famous friends (Ringo, Klaus Voormann, Billy Preston, Gary Brooker, Dave Mason, Eric Clapton e tutta la sua band…) e con la produzione elegante di Phil Spector “All Things Must Pass” è uno spettacolo sonoro, con capolavori che si rincorrono traccia dopo traccia. Perfino Bob Dylan lascia due testimonianze, la opening track (firmata con lo stesso George) e “If not for You”, puro omaggio all’amico di epiche fumate. “My Sweet Lord” diviene il pezzo guida dell’album, grandioso successo a 45 giri, peccato che si rivelerà un plagio della vecchia “He’s so Fine” delle Chiffons. Le perle da segnare sul calendario sono però altre: la maestosa ed emozionante “Isn’t it a Pity”, la tesa e bellissima “Beware of Darkness”, la title track (imponente e cosmica), la saltellante e circospetta “I Dig Love”, la paradisiaca “Ballad of Sir Frankie Crisp (let it roll)”.

Nella ristampa troviamo versioni alternative e demo di alcune tra le canzoni originali ed un’edizione 2000 di “My Sweet Lord”. Essenziale è il fatto che un’opera di tale portata venga salvata dall’oblio e riproposta al pubblico odierno. Una domanda che è anche un dubbio: ma a questo “pubblico odierno” potrà mai fregare qualcosa di Sir George Harrison?

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