MARK KNOPFLER, The Ragpicker’s Dream (Mercury, 2002)

Mark Knopfler sta godendo di una seconda giovinezza, visto che solo a due anni dal suo precedente disco solista se ne esce con un altro album nuovo di zecca. E due anni sono proprio pochi, in confronto ai tempi biblici a cui ci aveva abituati la pesante macchina dei Dire Straits, nel suo ultimo periodo.

L’ottimo “Sailing To Philadelphia”, uscito nel 2000, quattro anni dopo dopo il parzialmente sfocato “Golden Heart”, ha mostrato un Knopfler artisticamente di nuovo in crescita, mentre solo pochi anni fa lo si poteva dare quasi per spacciato, stanco e a corto di ispirazione. Ebbene, evviva: ascoltando questo ‘sogno di un rigattiere’, si ha un’ulteriore conferma dello stato di grazia in cui si trova Mark. L’album di riferimento per “Ragpicker’s” resta “Sailing To Philadelphia”; tuttavia ora stiamo parlando di un lavoro più estremo, musicalmente più vicino ai generi musicali ‘roots’ che costituiscono da sempre il bagaglio del pluridecorato chitarrista (e dietro l’angolo fa capolino l’esperienza con i Notting Hillbillies).

Knopfler attinge quindi direttamente e senza troppe mediazioni al country, come ad un certo blues di confine con altri generi, andando a scovare l’America più rurale e remoti angoli del Regno Unito e d’Europa. Tutti questi elementi, apparentemente lontani, sono ben legati da un filo sottile, prodotto inconfondibile delle Officine Knopfler: in definitiva Mark non rinuncia all’eclettismo e alla contaminazione, ma gli ingredienti questa volta sono elargiti in modo più mirato.

“Ragpicker’s” racconta piccole-grandi storie di vita, di dignità e fatica, ed i sentimenti di semplici lavoratori o emigranti nostalgici, come per esempio nel singolo rock d’apertura “Why Aye Man” (“Sometimes I miss my river Tyne, but you’re my pretty fraulein”). I temi del viaggio e della lontananza sono accompagnati efficacemente dalla musica: il suono è sobrio, la band essenziale, e prevale un certo acoustic touch che ben si sposa alla tranquillità media dell’album.

E così, per la prima volta, possiamo goderci Knopfler eseguire un brano come “Marbletown”, da solo, semplicemente lui e una Martin. Il pezzo non suona nuovo: si tratta del ‘solito’ country/blues in tonalità minore, chitarra molto pizzicata, alla “The Man’s Too Strong” o “Je Suis Désolé” tanto per intenderci. Ma questa volta il Nostro lo ha inciso nella sua casa di Londra, da solo e senza effetti particolari, ed il risultato è notevole: si tratta di Mark Knopfler concentrato e puro al 100%. I fans non potranno che godere di ciò. Ed è pure la prima volta che lo possiamo ascoltare dipanarsi in un lungo blues, senza compromessi: “Fare Thee Well Nothumberland”. In generale prevale la ricerca di atmosfere attraverso i suoni e poche note, pratica di cui il musicista è diventato maestro con lo scrivere colonne sonore.

L’espressività e le notevoli capacità cantautoriali di Knopfler, in questo disco prevalgono più che mai sul lato tecnico/chitarristico, anche se non ce lo si potrebbe immaginare senza chitarra: artisticamente l’uomo e lo strumento costituiscono sempre un tutt’uno. E come non apprezzare d’altra parte la delicata e malinconica “A Place Where We Used To Live”, o il toccante brano che dà il titolo al disco, o ancora la ballata che lo chiude? Questa è classe che si fa gustare a lungo, diffondendosi nel palato musicale poco a poco…

“The Ragpicker’s Dream” è un album estraneo ai cliché radiofonici, e non piacerà a tutti, asciutto, calmo e lontano com’è dal mainstream dei Dire Straits o dello stesso “Sailing To Philadelphia”. Qualche fan si chiederà anche se non sia da rimpiangere lo Knopfler più ‘tosto’ e rockettaro, qui un po’ latitante. Ma il disco piacerà comunque a coloro che amano visceralmente la musica e lo stile inconfondibile del noto Englishman, e a quelli che avranno la pazienza di farsi cullare dalla sua voce roca, e dalle esemplari storie di vita che ha da raccontarci con gusto e finezza.

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