VAN DER GRAAF GENERATOR, Pawn Hearts (Charisma/Virgin, 1971)

Prosegue la straordinaria compattezza di ispirazione del gruppo britannico, che con quest’opera tocca forse l’apice creativo. Diciamo forse, perché per molti critici è così: a noi pare in verità che il grande trittico dei Van der Graaf costituisca, nel suo insieme, un complesso unitario e uniforme sotto il profilo compositivo, nell’ambito del quale è preferibile, anzi obbligatorio, discutere di sfumature, più che di evidenti differenze di valore. Il giudizio finisce per basarsi per lo più sulle preferenze personali. Certezza è invece il fatto che in circa due anni sia sorto un tale monumento del rock.

Ma parliamo del completamento dell’edificio. Due lunghi brani nel lato A, “Lemmings (including Cog)” e “Man-Erg”. Il primo comincia in modo simile a “Darkness (11/11)”, con un lugubre soffio di vento, e si sviluppa in modo mirabile: risulta quasi stucchevole esaltare ancora una volta l’interpretazione vocale di Hammill, accompagnata da uno strumentale mai invadente, apparentemente in secondo piano ma sempre incisivo e denso, mai trabordante, cui gli ottoni di David Jackson conferiscono un sapore inconfondibile.

Lo stesso dicasi per “Man-Erg”, uno dei pezzi più rappresentativi di un gruppo troppo spesso trascurato e relegato ai margini o, per meglio dire, lasciato all’ascolto di pochi estimatori e cultori di una musica di nicchia. Ma è proprio questa presunta musica ‘minoritaria’ che ci regala perle come questa: che fece, e fa, davvero epoca. Possiamo sezionarla in quattro parti che, in un certo senso, comprendono tutte le caratteristiche del gruppo. Si comincia col bellissimo tema principale, sorretto dal pianoforte, una delle vette assolute, per intensità e pathos, di tutto il progressive (e di tutto il rock). Segue un intermezzo violento, q uasi ossessivo, dove la voce diviene aspra e stridula, tesa e straziante; poi la musica si stempera lentamente in un terzo tema melodico. Il modo straordinario in cui Hammill canta la semplicissima espressione “And I And You”, cesellandola, isolandola e quindi esaltandola, è la dimostrazione di cosa significhi ‘interpretare’ un brano. Infine, con composizione ad anello, ritorna il tema iniziale, modulato da Hammill in maniera ancora più grandiosa, che porta a compimento il brano: ma proprio in conclusione sentiamo riemergere il secondo tema percussivo, ribadito da un leggerissimo coro; una finezza indimenticabile in un finale suggellato violentemente dal saxofono con un ‘urlo’ lacerante.

Il lato B è dedicato alla lunga suite “A Plague of Lighthouse Keepers”, comprendente dieci sezioni, tre in più di “Supper’s Ready” dei Genesis. Un brano ricco di bellissimi temi, quasi una summa del Van der Graaf pensiero: ma ci risulta difficile giudicarla tout court, come sembra fare Cesare Rizzi nel suo ‘Progressive’ (Atlanti Universali Giunti, Firenze, Giunti, 1999), il risultato maggiore del quartetto. Oltretutto Rizzi parla di una presunta articolazione fra ‘momenti acustici e momenti corali’, di cui non sappiamo dare una spiegazione: di momenti corali in “A Plague…” praticamente non ve ne sono, eccetto che nel finale. In altri passaggi la voce di Hammill è reincisa su se stessa per creare maggiore intensità espressiva, ma non si tratta di cori. Forse Rizzi si è espresso male, anche perché la contrapposizione fra acustico e corale risulta in ogni caso sfasata. Ma torniamo a bomba. Vorremmo segnalare almeno le ultime tre sezioni della suite, dove la teatralità di Hammill tocca alcuni dei suoi massimi vertici: dimostrandosi l’unica in grando di contendere con quella, più poliedrica, di Peter Gabriel. Il sax di Jackson è in grande evidenza in “S.H.M.”, mentre in “The Clot Thickens” si ammorbidisce in un meraviglioso lirismo. La penultima sezione presenta incredibili sfumature cabarettistiche che, durante i nostri ultimi ascolti, ci hanno ricordato qualche passaggio di “Bohemian Rhapsody”: che i Queen avessero ascoltato questo brano? Il finale è ‘grandiosamente trattenuto’ e anche qui, come detto, c’è un leggero coro. Ma i Van der Graaf non cercano mai il facile effetto, anzi: qui sfiorano persino la cacofonia, il groviglio sonoro, dove la chitarra di Robert Fripp (ancora una volta collaboratore) ci offre il suo inconfondibile timbro. Si tenga presente che la chitarra elettrica non ha un ruolo fondamentale nella musica del gruppo o, per lo meno, non ha mai funzione strutturale. Ragion per cui questo intervento finale colpisce particolarmente l’orecchio. Nella sua lunghezza però, la suite è indubbiamente più frammentata di altri pezzi del gruppo: i temi, specialmente nella seconda parte, appaiono come una serie di quadri disposti paratatticamente, molto belli in se ma scarsamente collegati fra loro. Ma ce ne fossero di più di opere così!

Dopo l’uscita di “Pawn Hearts” il gruppo si prende una pausa, durante la quale Peter Hammill si concentra sulla attività da solista, intrapresa nel medesimo 1971 con “Fool’s Mate”. I suoi collaboratori saranno spesso e volentieri gli stessi membri del gruppo. Nel 1975 i Van der Graaf tornano con “Godbluff”. Nell’edizione statunitense di “Pawn Hearts” è compresa anche “Theme One”. Hugh Banton si occupa stabilmente anche del basso.

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