Beck, Ferrara (Castello Estense) (27 luglio 2000)

Hai presente “Le muse inquietanti”, il quadro di De Chirico con quei manichini con la testa a birillo davanti al Castello Estense di Ferrara? Ecco, una cosa del genere, solo che al posto dei fantocci togati il pittore stavolta ci ha messo automi sberluccicanti di lustrini e di orpelli tecnologici: il risultato è ugualmente spiazzante, ugualmente “inquietante”. L’artista più visceralmente superficiale, più chiassosamente sopra le righe di questi anni approda nella città dei misteri, degli antichi giardini celati dietro i pesanti cancelli di ferro battuto della nobiltà decaduta. Beck, il magnifico ciarlatano, il Barnum del 2000, arriva in piazza con la sua hall of oddities e chiama grandi e piccini a vedere la sua sgangherata big band di freaks, i suoi relitti da discoteca anni ’70, il suo incoerente modernariato, le sue schegge di cultura pop esplosa: “venghino signori, ecco la palla da disco e il bassista afro, i piatti del dj e i fiati alla Barry White…” Ma la città che fa? Si scuote, si colora della caciara, dei decibel, dei gadget di plastica? Ovviamente no: Ferrara l’Addormentata, sotto l’influenza del suo incantesimo secolare, offre al circo di Beck la stessa immobile cornice dei bambocci di DeChirico; e più il baraccone si illumina di luci stroboscopiche, più il Castello se ne sta lì indifferente, vicino eppure lontanissimo nella sua enigmatica solennità. E come potrebbe essere altrimenti? Una città così profondamente provinciale, chiusa nella sua bolla di sonno magico, non può che restare spocchiosamente indifferente di fronte a Beck il cosmopolita, il californiano con i cromosomi nordeuropei che lascia la scuola a 16 anni per andarsene a New York un po’ a fare il folk singer alla Woody Guthrie e un po’ a ballare la breakdance per le strade. Il suo randagismo si rispecchia nella musica, giocata sul limite estremo della contaminazione, in cui il songwriting del folk singer si appaia pericolosamente alla logorrea dello MC, e i sintetizzatori elettropop fanno l’occhiolino al banjo. Ma la sintesi musicale di Beck è tutt’altro che azzardata: il nostro è in fondo uno studioso metodico e imparziale dei suoni e delle mode, che si interessa soprattutto alle superfici, agli involucri colorati della musicaccia commerciale di ogni tempo; come uno scultore pop, il ragazzo prende tutta questa muzaak e tutti i luoghi comuni correlati per raccontare un mondo dove tutto è consumo, rapido e vorace. E ciò che si consuma è soprattutto la promessa di felicità che si annida nel cartoncino sgargiante, quello che contiene l’oggettino di plastica cui aneliamo fin da bambini. Allo stesso modo Beck in concerto propone un cortocircuito di luoghi comuni della performance live, dall’icona glam al rapper, dal guitar hero al cantante soul; ma se alla fine è tutto parodia, citazione, dov’è il vero Beck? Due ipotesi: quello che a metà concerto resta da solo sul palco, che con solo la voce e l’armonica trascina il pubblico “One Foot In The Grave”; oppure quello che alla fine si trasforma assieme agli altri musicisti in un orpello tecnologico, chiuso in un’inutile cupola di plexiglass come un qualsiasi oggettaccio comprato dalla vostra mamma in una televendita. Superficie VS segreto; frivolo VS solenne; rumore VS silenzio; questo è stato Beck a Ferrara. Cacchio se mi sono divertito, però.

(Stefano Folegati)

05.08.2000