THE ANCESTORS, “Invisible White” (Tee Pee Records, 2011)

Se partendo dall’assolata California il sogno americano si ritraesse e tornasse indietro dalla frontiera, e ripercorresse i suoi passi dalle praterie fino alle coste orientali dei padri pellegrini e riscoprisse i primi istanti dell’amarezza dell’esilio e la speranza della rinascita, forse troverebbe nel frastuono apocalittico dei Neurosis e nella desertica desolazione stoner dei primi vagiti, il motore primo e ultimo da cui tutto è partito, un profondo e silente sentimento di pietas per il destino dell’essere umano, troverebbe la rivelazione che tanto clangore degli ultimi istanti è la nota conclusiva di una ricerca fatta di malinconia trascorsa, per lungo tempo trattenuta: un sogno rivelato a se stesso, pieno di dolore filosoficamente cosmico e umanamente esprimibile con la musica degli Ancestors, giunti a noi direttamente dalla space jam di Los Angeles.

Infatti attraversare la loro breve discografia significa ripercorrere a ritroso l’immaginario tragitto del sogno americano, partendo da “Neptune With Fire”, sorpresa psichedelica del 2008 che annunciava già l’immensa capacità lirica della band, passando per il mare dei Sargassi dell’hegeliano “Of Sound Mind” (2009) pietra filosofica irripetibile della loro personale creatività, e approdando alla nuova terra emersa, la perla “Invisible White”, EP di tre soli brani, densi, eccellenti, persi tra fervori rachmaniniani e sacralità kraut rock. Il risultato è un lavoro spaventoso nella sua magniloquenza che toglie fiato, poetico e miliare, ricchissimo come un intero lato da LP classico. Prima del loro terzo e promesso full lenght, “Invisible White” (titolo da avvento esoterico) rappresenta l’avvenuta radicalizzazione di un sentimento di epica dissolvenza in un lirismo continuato che definire romantico, holderiniano, è ancora poco.

L’omonima “Invisible White” disorienta per il canto sponsale di sirena che si intreccia con una chitarra acusitca quasi medievale e una poderosa grancassa che pulsa, trasformando il tutto in un ingresso rituale misterioso. Lentamente si aggiungono per i primi tre minuti un pianoforte, i synths, e un basso, e quando infine si unisce un violino ferito che mestamente sostituisce il canto della sirena ripetendone l’antico motivo iniziale, può iniziare il canto disilluso di Maranga e soci, tra reminiscenze crimsioniane e floydiane, il gotha europeo dei tempi che furono.
“Dust” riesce ad imprimere al carattere sostanzialmente seventy, con chitarre oniriche, mellotron nebbioso, batteria soft, basso da presa diretta, una notevole sensibilità classica grazie all’apparizione di un pianoforte scuro eppure assai vivo.
Infine è il momento di “Epilogue”, pièce di 14,07 minuti (quasi la somma della durata dei due brani precedenti): è l’apoteosi. Il pianoforte da sonata gelida dell’ultimo Listz, già introdotto in “Dust”, fa ora il suo ingresso maestoso e aggressivo insieme a basso e batteria sacerdotali à la Amon Duul II, e a un tappeto chitarristico che si infrange prima tra le derive caotiche degli Hawkwind e poi nel cosmo tanto dark dei Pink Floyd. Il pizzicore dei piatti è una bussola certa che ci trasporta in questo mare tempestoso di suono che ascende come attraverso un calvario all’universo. Un istante folgorante che Gilmour approverebbe.
Siamo di fronte alla riscrittura dei generi che in un’epifania religiosa diviene la riscrittura della lotta umana contro il nulla del suo destino, un precipitare cieco e dolente – “come acqua di scoglio in scoglio negli anni” – nell’ignoto.
Quando il tormento della lotta tra chitarra e batteria si placa stancamente, e il moog e i synths di Barks sigillano gli ultimi istanti di 14 minuti inesprimibili, la musica ha fatto silenzio nell’anima.
A testa bassa gli Ancestors hanno firmato il loro prezioso, il nostro titanico, “Canto del Destino”.

85/100

(Stefania Italiano)

8 luglio 2011

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