BELLE AND SEBASTIAN (+ Baustelle + Samuel Katarro) – Concerto al Play Art (Arezzo) (25 luglio 2010)

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Dopo un’attesa che si stava facendo estenuante, finalmente i Belle & Sebastian tornano in Italia. Per un unico imperdibile appuntamento in occasione del PlayArt Festival di Arezzo. Rassegna dal cartellone altrimenti trascurabile per la prevalenza di nomi triti e ritriti della scena italiana. E che invece ruba idealmente al Ferrara Sotto Le Stelle l’evento dal sapore urbano più atteso dell’estate 2010. Il concerto sarà pure in un parco, nella fattispecie quello della fortezza medicea, in cima all’arroccatissimo centro storico medievale della città toscana. Ma si respira quell’atmosfera fatta di sguardi straniti verso gli sciami di forestieri, incandescenti stand con pesantissimo cibo tipico che solo negli afosi contesti periferici delle estati concertistiche italiane si può respirare. L’attesa estenuante per il collettivo scozzese che a cavallo tra i due secoli ha idealmente accompagnato con le sue storie quotidiane e sfigate la disorientata Scozia delle droghe pesanti, della devolution, della riapertura dopo secoli del suo Parlamento, del coprifuoco di Glasgow del 2000, di Gordon Brown primo ministro, è resa ancora più estenuante dagli opening act. Non tanto Samuel Katarro che non si intrattiene sul palco per più di un quarto d’ora, fruttuosamente messa da parte la formazione solista per un trio di folk psichedelico tra Syd Barrett e stridente sbarello Sixties. Sembrerebbe seguire le tracce dei Jennifer Gentle in questo senso, ma il ragazzo toscano ha talento vocale. Starà a lui e alle sue scelte compositive, il destino di dilapidarlo come tanti suoi colleghi o di sfruttarlo. Potrebbe iniziare avvicinandosi al centro del palco senza estraniarsi  in quella scomoda posizione defilata. Il seguito crea più problemi. Complice anche un’insistente pioggerellina, prematuramente edinburghiana che si abbatte tra le minacciosi nubi di un Arezzo tutt’altro che afosa, estiva e vacanziera, La Fame Di Camilla, gruppo barese dalle deviazioni sanremesi (mi si fa notare che da Sanremo ci sono passati per davvero) che scopiazzando come le migliaia di inutili band da pub a destra e a manca, Coldplay, Travis e derivati, rende l’attesa una tortura.
Né fanno meglio i co-protagonisti della serata, i Baustelle. L’unico cinico merito di Bianconi e soci dà l’idea di essere quello di aver contribuito a tenere basso il prezzo più che onesto d’ingresso (20 euro). Trascinando ad Arezzo i propri seguaci, manco fosse un loro show. Seguaci che si defilano prima dell’inizio dei Belle & Sebastian. Un seguito fenomenologicamente non dissimile dalle mandrie che affollano festivalbar e i più recenti mega-raduni della loggia massonica di Maria De Filippi e affiliati. A giudicare dal tripudio di cellulari e coretti che accompagnano le canzoni dall’ultimo pleonastico capitolo della band di Montepulciano, “I mistici dell’Occidente” e dagli sguardi vacui con i quali ascoltano quasi spazientiti i brani meno recenti di quello che era uno dei nomi più originali del pop indipendente italico. “I provinciali” con cui entrano in scena si è trasformato così nel loro beffardo manifesto d’intenti. Prigionieri dei limiti dei mediocri personaggi descritti dal neo-crepuscolarismo bianconiano, si fa fatica a vederli cantori distaccati e disillusi di un contraddittorio mondo di case popolari, marlboro, sushi, milano, corso como, cinture d&g, avvocati rispettabili, calendari, guerre e capitalismo. Non è la solita facile critica ai radical chic italici che tengono in piedi o sono, peggio, l’altra faccia del berlusconismo. I Baustelle non sono dei sociologi, il loro sarà pure cut-up, ma per uno scherzo del destino, da qualche anno ci sono dentro senza essersene accorti. Il loro nuovo pubblico non è solo un effetto collaterale. Che poi Bianconi abbia studiato canto e finalmente riesca a cantare bene le sue canzoni è un contentino. Quando un approccio potente e altisonante da Liga-band con otto membri fa sì che di tre chitarre non se ne distingua mezza per tenere in evidenza, voci, tastiere e orchestrazione. Il resto lo fanno un controverso rasta pifferaio che fuma mentre suona e un batterista minorenne picchiaduro che sembra aver vinto un contest “Partecipa anche tu, inviaci il tuo assolo e suonerai coi Baustelle per una serata”. “La guerra è finita” è un lampo di leggerezza, così come “La moda del lento”. “Gomma”  “Antropophagus”, rispetto ai vecchi Baustelle (che Bianconi sarcasticamente ricorda come per qualcuno fossero meglio) avrebbero una struttura più ricercata e meno italica, ma perdono tutto in questo magniloquente impatto live da Cocciante vs My Chemical Romance. I Baustelle sono diventati i Dorian Gray dell’indie italiano. Ed è un peccato, ripensando al sussidiario illustrato della loro giovinezza che era anche un po’ nostra.
Meno male che c’è la Scozia. A riportare tutto sulla terra. A dare un po’ di sfigata concretezza, in contrasto con gli stanchi e stancanti specchietti per le allodole della scena italiana che conta, o in teoria dovrebbe contare. I Belle & Sebastian sono sempre stati degli sfigati. I loro impagabili personaggi sono medi e sfigati come loro. Nessuna beffa, nessuna finzione. Orgogliosamente autoreferenziali nei loro panorami crepuscolari, oscillanti tra iperrealismo, disincanto, non-sense e grottesco, fanno di Stuart Murdoch un simbolo dei nostri tempi. Il look non conta un cazzo. A quarantadue anni si può anche indossare un orribile abito nero con i pantaloni scampanati e una t-shirt bianca degli Smiths. Per non soffermarsi sulla pari onestà intellettuale e modestia che trasuda il resto della band. Verrebbe da urlare: “Pseudo-alternativi italiani, dinosauri della critica del belpaese, presunto paese reale, sedicenti e lagnosi paria della cultura italiana – per usare una citazione a tema – andate a farvi fottere”. Ecco cosa succede in Scozia da almeno quindici anni. “I Didn’t See It Coming” apre le danze naif degli otto scozzesi (anzi sette, perché Kildea è un nord-irlandese) accompagnati da un quartetto d’archi dell’orchestra aretina. Brano inedito dal nuovo album in uscita a ottobre, presentato in anteprima come “I’m Not Living In The Real World” . La prima si avvicina ai brani più compositi e iperarrangiati degli ultimi due album  da Supertramp immersi e annegati nei fiabeschi habitat dei Belle & Sebastian. La seconda diventa uno stupido ed efficace inno corale orchestrato dall’altro frontman, quel buontempone di Stevie Jackson. Manuale del live: coinvolgere la platea in un brano inedito con facili espedienti. Quali l’whoo whoo, su cui si regge il testo. Whoo, whoo che riecheggia con successo alla fine del brano.
Per il resto lo show è un esaltante excursus nella storia del collettivo di Glasgow. Trascurato purtroppo, “Tigermilk”, l’emblema dell’indie-pop quando indie voleva davvero dire indipendente, dal loro capolavoro “If You’re Feeling Sinister” arrivano “Like Dylan In The Movies” e l’omonima che sembrerebbe riecheggiare da una radio a bassa fedeltà.

Murdoch, improbabile anfitrione, piuttosto insistentemente interagisce a suo modo coi presenti. Inizia col cercare un interprete per i suoi monologhi, poi pretende di sapere per quanti sia la prima volta a un concerto dei Belle & Sebastian. Chiama due fortunate sul palco per accompagnarlo nelle sue goffe danze ancheggiate in “The Boy With The Arab Strap”, improvvisa un brindisi per il compleanno del batterista Richard Colburn, improvvisa “Wrong Girl” richiestagli da un fan nel pomeriggio con il socio Jackson voce meno originale ma sempre impeccabile. Ironizza sulle acclamazioni che precedono “The Fox In The Snow” prima ancora di suonare una singola nota. Il tutto funziona in brani come questi, in cui l’inconfondibile timbro disilluso e al tempo stesso trasognato di Murdoch scalfisce gli animi più duri.  Senza la minima sbavatura, gli eclettici musicisti dall’aria di clerk senza pretese né futuro, si divertono e fanno divertire. Tastiere e archi ad alta intensità. Fiati di un ottimismo disney. Ritmiche sempre leggiadre.

Se i brani dal già citato capolavoro, quali anche “Judy And The Dream Of Horses” e “Get Me Away From Here, I’m Dying”, hanno un impatto unico anche grazie alla loro carica emotiva, gli episodi meno cantautorali nell’ottica live non sfigurano. Tutt’altro, anzi risollevano l’atmosfera dagli abissi esistenziali delle storie tra noir, crudo realismo e latente sentimentalismo da lovestory finita male, in improvvisi sprazzi festaioli. Danno l’idea di party dopolavoro per colletti bianchi della Glasgow più precaria, ma si stampa un sorriso sulle labbra difficile da rimuovere. “I’m A Cuckoo” e “Step Into My Office Baby”, ripescati come “If You Find Yourself Caught In Love” da “Dear Catastrophe Waitress”, discusso disco della deviazione dal folk a bassa fedeltà che li aveva resi inimitabili. I nuovi Belle & Sebastian sono questi, una “Funny Little Frog” più quieta e rallentata dimostra come “Sukie In The Graveyard” che la vena da cantastorie non è mai stata sopita. Il sound è colorato e avvolgente, Stuart nonostante tutto tiene il palco come pochi contemporanei. Il crescendo di “Sleep The Clock Around”, altro estratto da “The Boy With The Arab Strap” è la degna conclusione per come tiene insieme le varie anime della band. Difficile chiedere di più. Eppure loro ce lo daranno con gli interessi nel bis.

Una straripante “Legal Man” aperta da un breve siparietto in cui è proposta “Smoke On The Water”, in chiusura mette il timbro su una serata memorabile.
Letti vuoti. Colloqui di lavoro. Lisa che bacia uomini come una lunga camminata verso casa. Anthony e Hillary nella camminata verso una morte come tante. Le scampagnate al cimitero di Sukie. Volpi nella neve. Comici rospi in gola. Cani su rotelle. Arab Strap. Il 1999 e l’amore. Ragazze sbagliate. I cavalli sognati da Sukie e le sue canzoni tristi. Gli Stati Uniti di Calamity Hey. Per un’ora e mezzo si entra in un eccentrico mondo parallelo, immaginario quanto vivido, resettando ogni contatto con la realtà.
L’ideale omaggio per la scomparsa di Cecile Aubry, l’autrice francese del libro da cui la band di Glasgow ha preso il nome per scrivere una delle pagine più incantevoli e inaspettatamente quanto fatalmente influenti dell’immaginario collettivo britannico.

I Didn’t See It Coming
I’m a Cuckoo
Step into My Office
Like Dylan in the movies
I’m Not Living In The Real World
If You’re Feeling Sinister
Sukie in the Graveyard
Fox in the Snow
Funny Little Frog
Dog On Wheels
The Boy With the Arab Strap (tbwtas)
If You Find Yourself Caught In Love
Wrong Girl
Judy And The Dream of Horses  (iyfs)
Sleep the Clock around (tbwtas)
—-
Get Me Away From Here, I’m Dying
Legal Man

(Piero Merola)

Link su Kalporz:

Belle And Sebastian
Baustelle
Samuel Katarro – The Halfduck Mistery
Samuel Katarro – Concerto all’Off (Modena)
Samuel Katarro – Beach Party

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