[#tbt] I 40 anni di “Murmur” dei R.E.M. e la sua “idea” di canzone

Quando nell’aprile 1983 i REM davano alle stampe Murmur, il debutto capolavoro che dava il via alla loro straordinaria carriera, i mondi del pop e del rock erano a un bivio. Le sbornie chitarristiche di fine ‘70s e le graffianti tempeste punk rock da poco scoppiate già stavano per cedere pian piano il passo a quell’afflato artsy e multiforme tipicamente ‘80s che già si era imposto con la rivoluzione sonora dei Talking Heads e che, seguendo direzioni estremamente differenti tra loro, avrebbe portato alla nascita di un sottobosco cantautorale da un lato, dagli Smiths ai Cure, lo-fi o sperimentale dall’altro, dai Sonic Youth ai Pixies.

I REM arrivano prima di tutto questo: il mellifluo e ipnotico dipanarsi delle loro melodie e i loro ritmi incalzanti e al tempo stesso alienanti avrebbero dato vita a un nuovo tipo di pop-rock che sarebbe servito da modello, specialmente nei ‘90s, a tantissimi artisti, dai Pavement ai Guided by Voices, dai Radiohead a Beck. I ‘90s sono attraversati in lungo e in largo da masticazioni sonore del pop-rock sabbioso e decostruito di Michael Stipe, Mike Mills, Peter Buck e Bill Berry senza che i quattro si fermassero mai: crescevano, anzi, al fianco degli artisti che man mano avevano in qualche modo “contribuito” a creare, mettendosi in discussione, ricalibrando sé stessi e il loro percorso senza mai modificare l’idea di canzone che avevano, vivendo anche gli Anni Novanta da protagonisti del genere e riuscendo a sopravvivere – come potevano – alla crisi di quell’idea stessa di pensare la musica.

Mentre negli ultimi dieci anni abbondanti sono brillantemente proseguite, ampliate di b-sides, di outtakes, di versioni alternative di canzoni già pubblicate e di live, le ristampe dei dischi dei REM in occasione del loro venticinquesimo anniversario, è arrivato il momento di celebrare i quarant’anni del loro disco d’esordio. Era il 12 aprile 1983, infatti, quando Murmur usciva. Il quartetto proveniente da Athens, Georgia aveva dato alle stampe qualche tempo prima l’EP Chronic Town, contenente cinque brani, e aveva trascorso i primi due mesi dell’anno a incidere l’LP di debutto, ancora oggi considerato dai più, in modo quasi unanime, il pezzo più pregiato della discografia del quartetto.

Non volendo rendere questo il luogo in cui ripercorrere la genesi dell’opera pare doveroso e rilevante riflettere su quanto questo disco parli ancora oggi a noi e al mondo musicale contemporaneo, essendo esso rimasto nel corso degli anni un punto di riferimento per un numero enorme di band. Quando l’IRS puntava sui REM la scena musicale angloamericana era stata da poco sconvolta dalle magmatiche rivoluzioni del punk, che a quel tempo aveva già lasciato il posto al post punk e alla new wave.

In quel pugno di mesi e di anni lo spazio per la forma-canzone tradizionale sembrava per un attimo non essere occupato da nessuno, se non per chi già ne portava avanti il verbo da tempo; sembrava quasi che il pop-rock necessitasse di nuova linfa vitale che desse vestiti più adatti a un qualcosa che la frammentazione dei generi e della psiche umana di allora aveva saputo demolire dall’interno con talento e coraggio, fino a trascinarla entro dimensioni innovative eccezionali – si pensi al meraviglioso pastiche di generi dei Clash o alla sublime e inquietante rivoluzione dei Joy Division – dalle quali non si poteva più ritornare indietro.

Ma, come tanta grande letteratura, per esempio la Bibbia, ci insegna, non si ritorna mai dalla strada da cui si è partiti: il ritorno è in avanti perché indietro, per restare ancora al riferimento biblico, c’è sempre l’Egitto. E così, come avverrà anche coi Pavement meno di un decennio dopo, che si sarebbero ispirati profondamente ai REM, la forma-canzone tradizionale non ritorna indietro dalla strada che aveva imboccato “all’andata”: anche grazie a un gruppo come i REM essa riemerge rinnovata e freschissima proprio perché tiene a mente le esperienze recenti che avevano sconvolto e cambiato il panorama musicale globale e da lì riparte.

Murmur è, in fondo, anche e soprattutto questo. Il disco è un occupare quello spazio vuoto e un voler tentare di dettare la linea in merito a cosa dovesse essere il pop-rock americano all’inizio degli Anni Ottanta, un tentare di guadagnarsi quella leadership che il genere in quel periodo storico sembrava implorare in ginocchio di trovare. Le prime note di chitarra, amplificate e riverberate da quella tipica batteria tintinnante e scivolosa che diverrà quasi “formulare” per i REM, di “Radio Free Europe” indicano subito la direzione che il gruppo ha scelto di percorrere: quello che il quartetto crea è un equilibrio leggero che sembra dover cedere improvvisamente ma che non viene mai meno e che appare un mezzo miracolo pop che può spiegarsi soltanto con la straordinaria voracità musicale di ciascuno dei quattro.

Proprio in virtù di questo affascinato e misurato intreccio, una συμπλοκή – per usare un termine caro alla filosofia ma anche alla grammatica – dai tratti poetici e seducenti, guidata con mestiere e con partecipazione dalla voce magnetica di Stipe, dalle batterie vitree di Berry, dalle chitarre taglienti di Buck, dal basso vischioso e melodico di Mills: tutti i capitoli del disco sono lì a testimoniarlo. Pezzi come l’ipnotica e incantevole “Laughing” e la fiabesca “Perfect Circle” mostrano quante soluzioni ritmiche e melodiche il gruppo sia in grado di maneggiare e quanto basso e batteria siano abili a dare ai brani un panorama sonoro e visivo di altissima qualità. La voce di Stipe attraversa più registri e approcci all’interpretazione: è quasi un tutt’uno con gli strumenti che ha intorno e va in alto in “Radio Free Europe” e in “Shaking Still”, sa essere secca e minimale nella vorticosa “Catapult”, è a tratti elegiaca e a tratti dura e roca nella pulsante “Talk About the Passion”. La versatilità chitarristica di Buck splende in episodi raggianti come “Laughing” o “West of Fields”, così smaniose e intricate.

Tutto questo ci riporta inevitabilmente all’asserzione che ha dato inizio a questo mini-saggio: nel 1983 i REM, mentre avevano già chiari i loro scopi e la loro idea di canzone, di arrangiamenti e di stile, che andava formandosi ed evolvendo ma che era già solido e straordinariamente avvincente, stavano trovando la loro dimensione nel panorama musicale temporaneamente orfano di un nuovo vento pop-rock dopo gli sconquassi temporaleschi e gli uragani – bellissimi – del punk, del post punk, della new wave. Quella dei REM non è una rivoluzione ma tantomeno è un ritorno al caldo e al sicuro nella comfort zone in cui avrebbero potuto decidere di adagiarsi. Il grande cantautorato continuava – Bob Dylan e Bruce Springsteen per fare solo due nomi – e il grande rock era ancora in ottima salute; chi stava entrando in quel momento in scena, però, doveva saper trovare una sintesi tra il recente passato e il recente presente, tra le ultimissime rivoluzioni e la più grande e nobile tradizione dei generi cui la nuova band si votava. I REM sono riusciti nell’obiettivo.

In questo senso è chiaro che Murmur sia anche una sintesi perfetta – e al tempo stesso sapientemente velata – delle influenze del gruppo e di tutto ciò con cui, per affinità o per contrasto, scelsero di dialogare, e forse non si è mai ribadito abbastanza quanto il gruppo abbia saputo guardare alle avventure musicali a sé coeve o quasi. In Murmur, oltre al pop-rock dei ‘60s e dei mid-‘70s, dalle polifonie byrdsiane alla sensibilità di Lou Reed e di Alex Chilton e soci, risuonano vividi anche i Gang of Four, gli Wire, il post punk fumoso dei PIL e quello sfilacciato dei Television, le coraggiose esperienze sonore di certi progetti di David Bowie e dei Talking Heads. Il pop-rock d’inizio Anni Ottanta stava così, pian piano, cercando il suo spazio, e anche e soprattutto grazie ai REM lo avrebbe ben presto trovato.