Di quando quattro sbarbatelli dello Yorkshire si presero Bologna

The Lounge Society (+ Big Mountain County), venerdì 4 Novembre, Covo, Bologna

Il mio arrivo a Bologna è salutato da un clima (finalmente) verso il rigido. Ci si becca fuori dal Covo Club con Antonia – quasi una rarità vedersi dal vivo per noi kalporziani distanti e indaffarati – per registrare una futura Indi(e)pendenze per poi ingannare con una birra il tempo che ci divide dall’evento di stasera, la prima apparizione italiana dei Lounge Society, la next big thing del post-punk britannico.

Un’idea su come suoni il quartetto di Hebden Bridge ve lo può dare perfettamente la foto qui sopra: compatti. Uno sopra l’altro. Somma delle parti migliore del singolo elemento. Cameron Davey è un piccolo Jeff Buckley ma con la risolutezza di un David Thomas (Pere Ubu), interpretazione più che voce; i chitarristi Herbie May e Hani Paskin-Hussain tecnici quanto glam nelle pose e Archie Dewis alla batteria motore e quasi equilibrista del sound del gruppo – non a caso è lì a tenere su gli altri.

Facendo un passo indietro si può dire qualcosa di simile sugli opener Big Mountain County. Materia psych-rock nei loro pezzi, spruzzati di funk esotico, sono comunque dei veterani rispetto ai northeners inglesi avendo iniziato nel 2012 (e vengono da Roma). L’ ultima loro pubblicazione è “Klaus” per Porto Records che ha seguìto l’LP “Somewhere Else” del 2020, con riferimenti quali Wooden Shjips e primi Tame Impala; da subito nella loro esibizione vedi che è il bassista il collante di turno a rincorrere gli altri. In particolare il frontman – mi scuserà – è un Cesare Cremonini/Piero Pelù che canta in inglese, scendendo tra il pubblico con un ghigno magnetico e lanciando indietro il microfono: buffo quando prova a utilizzarlo sapendo di averlo rotto. Un trasporto forse pacchiano ma qualche canzone da ricordare c’è, come “What?”, “Where Are You” e “Dancing Beam” – dei New Candys che fanno muovere ma meno esportabili, in definitiva.

Si avvicina la mezzanotte quando su un bell’intro – una canzone mod-jazz immagino dagli anni sessanta – entrano in scena i Lounge Society, protagonisti negli ultimi due anni di speciali su NME e Mojo. Scopro che la loro città di origine è grande come la mia (Igea Marina, cinquemila abitanti) che descrivono “with a weird darker side, particularly in winter. Geographically it’s one of the darkest and wettest places in the country with potential drug and alcohol problems at every corner”; ora da me non siamo agli stessi livelli tuttavia è comprensibile il senso di noia e la volontà di uscirne, magari iniziando da una sala prove con gli amici di liceo.

La tracklist ripercorre quella strada, dal singolo d’esordio “Generation Game” qui in una versione robusta da assomigliare a “Boys In The Better Land” dei Fontaines D.C. fino ai pezzi più importanti da “Tired Of Liberty”, uscito ad agosto per la Speedy Wunderground (label di Dan Carey), quali “Blood Money” e “No Driver”: adrenaliniche con i ragazzi a scambiarsi chitarre e basso ma in grande confidenza, divertendosi e esaltando chi ha amato i primi passi di Strokes, i Bloc Party, i Talking Heads.

Non mancano brani dell’EP “Silk For The Starving” dove si intravedeva già una scrittura forte per la giovane età, dalla vena politica. “Cain’s Heresy” apre i giochi scura e dritta come un martello, mentre con “Burn The Heather” si balla disordinatamente a sottolineare le due facce del gruppo, tra indie-rock e (no)wave. Smorza i toni la ballad “Upheaval”: peccato non sia eseguita con chitarre acustiche come su album (dove sembra un brano dei Coral) ma pazienza. D’altronde questi sono i Lounge Society dal vivo: elettrici, carichi, con tanto da dire. La proposta ideale per un locale che ha fatto la storia degli ultimi quarant’anni di rock’n’roll.

Foto di Nicole Osrin, cortesia dell’ufficio stampa del Covo
Foto in Home di Alex Evans