[LineaNota] Demented Burrocacao, “Italian Futuribili. Il Pop nostrano che ci ha visto lungo.”

Il futuro aveva un avvenire, si legge nella prefazione al bel libro di Demented Burrocacao “Italian Futuribili”, come a dire che una volta, inaspettatamente e contro l’inerzia di formule le più retrive, aveva lasciato che “dieci cento mille scuole” prosperassero simultaneamente, a comporre un tale mosaico di novità da fare impallidire il music business d’oltreoceano; al punto da spingere una parte del mainstream a cercare vie nuove, con il rischio di tradire le aspettative del mercato, ma con la ferma convinzione di sperimentare qualcosa di mai sentito e uno slancio alla propria creatività.

Andiamo con ordine.

Demented Burrocacao, pseudonimo di Stefano Di Trapani, non ha bisogno di presentazioni: critico musicale finissimo, dalla scrittura agile ma ricca di suggestioni, e a cui si perdona volentieri il ricorso costante ed ossessivo al romanesco, specialmente quando viene intervistato o si ritrova a parlare in pubblico (qua e là anche nel libro affiorano espressioni del gergo capitolino).

Già due anni fa, in piena seconda ondata, era stata salvifica la lettura del suo libro dedicato alle sigle dei cartoni animati (“Si trasforma in un razzo missile“), giapponesi e non solo, per la felicità del racconto, largamente autobiografico, di un’epoca fatta di sperimentazioni, di attenzione ai progressi della tecnologia e di come questa dovesse predire chissà quali scenari futuri.

Con l’ultimo lavoro, dedicato al pop italiano più allucinato e visionario, Demented ha alzato l’asticella della qualità letteraria e ci ha fatto dono di uno dei libri più interessanti di questo ’22; il periodo storico preso in esame copre quindici anni circa di storia patria, dalla metà degli anni ’70 fino alla fine del decennio successivo: anni di furore, di ricombinazione post moderna degli stili e delle influenze; di ossessione per un futuro elettronico e definitivamente automatizzato, che, nelle parole dello stesso autore, è il “solo modo per evadere dalla gabbia della realtà e elaborare l’horror vacui che ci portiamo appresso”.

Eccola la trappola del presente: una camicia di forza, una condizione apparentemente impermeabile a qualsiasi cambiamento, benché rappresenti l’unica possibile faccia dell’esistenza collettiva e di conseguenza la sola forma accettabile di vita.

Al contempo, il futuro nella proposta musicale degli artisti passati in rassegna, è “un grimaldello per rifiutare il controllo, per sovvertire il sistema di pensiero dominante mescolando le carte dei valori”.

Vediamone alcuni.

Il pioniere, colui che ha iniziato questo processo di sovvertimento delle gerarchie, è un certo David Zed, mimo americano naturalizzato italiano, il quale nel 1980 irrompe a Sanremo, immaginiamo sotto lo sguardo torvo delle prime file, nell’edizione presentata da Claudio Cecchetto. 

La canzone si presenta da subito come un esperimento robotico, metallico, caratterizzata da un’inquietante cantilena monotonale: “il titolo è R.O.B.O.T., scandito a mo’ di spelling. È il robot che parla, racconta la sua vita in maniera neanche troppo rassicurante, tra un blackout, “lampadine, circuiti, fili e spine” e sculaccioni ai bambini birichini. Per molti, soprattutto per i più piccoli, è un’epifania. Era il primo droide italiano che, complici gli arrangiamenti del mitico Goblin Claudio Simonetti, rivendicava il suo posto nell’immaginario pastasciuttaro del bel paese, inquietante messaggero della nascita di un nuovo tipo di autoctono musicale: l’italian futuribile.”

Un uomo nuovo, quindi, programmato in tutto come una macchina, a cui affidare nientemeno che la continuità della vita sul pianeta.

Al confronto, la “mutazione antropologica” già evocata dall’apocalittico Pier Paolo Pasolini appare di una tenerezza sconcertante: qui, ci troviamo catapultati in un altro evo, un mondo nuovo huxleyano di cui, ancora oggi, non sappiamo granché, ma che sicuramente all’epoca rappresentava l’invasione o la conquista, a voi la scelta, di barbari venuti da chissà dove.

In realtà, a precedere l’avvento di questo strano personaggio atterrato sul palco dell’Ariston è un altro tizio che più insospettabile non si potrebbe, e che qui non vogliamo svelare per non rovinare il gusto della lettura. Basti dire che costui proviene dalla band forse più antitetica al concetto di futuro.  

Tanti, alcuni di loro veri e propri e giganti del pop sintetico, si avvicendano nel viaggio che conduce al mondo di un domani inesplorato, sempre più immateriale, sempre più distopico (per formazione cinematografica più che letteraria), intossicato da radiazioni post atomiche già presenti in “Vamos a la Playa” dei Righeira (altra band seminale dell’Italian futuribile) e destinato a implodere su se stesso.   

A proporre un’immagine intensa, benché problematica, di una Terra inabitabile e da cui fuggire, è il compianto Franco Battiato, il grande cantautore catanese che più di ogni altro ha saputo coniugare i due poli, troppo spesso, opposti del pop e della libera sperimentazione.

La cosiddetta trilogia “spaziale”, ovvero L’arca di Noe (’82), Orizzonti perduti (’83) e Mondi Lontanissimi (’85), rappresenta da sola un compendio sublime della filosofia battiatesca, fatta di esoterismo, divinità assire, geroglifici indecifrabili e, soprattutto, luoghi, mete, destinazioni possibili, per sfuggire alla fine, per salvarsi dall’implosione di Madre terra; in una messa a punto precisa, affilata dalla sagace ironia dei testi, di un orizzonte politico “saturo di parassiti”, come avrebbe detto qualche anno dopo, e privo di quella dimensione spirituale di cui Battiato si è fatto, diciamo cosi, portavoce. All’indomani del successo da un milione di copie de La voce del padrone, album di svolta per l’autore e per tutto il pop italiano, brani come “L’esodo”, “La torre” o “No Time No Space”, ridisegnano l’immaginario culturale degli ascoltatori, più interessati ai racconti di Philip K. Dick e agli allarmismi dell’ecologia militante che al Kapital di Marx.

C’è un gruppo che sintetizza al meglio questo slancio inquieto e intriso di coraggio, di incosciente spregiudicatezza verso l’ignoto, ovvero i Matia Bazar, guidati dalla “matia”, in dialetto ligure “matta”, Antonella Ruggiero, voce incantevole e presenza scenica che il pop italiano può legittimamente appuntarsi al petto come una medaglia.

Dopo alcuni lavori innocui benché di buona fattura, nel 1983 arriva il capolavoro, Tango: “perfetto lavoro in cui elettronica, classicità, musica da ballo e sperimentazione vanno a braccetto”

Uno dei brani di punta del disco viene presentato ancora una volta a Sanremo, ed è la splendida “Vacanze romane”; in essa “aleggia la benedizione di un brano che, nonostante sia composto da microplagi di brani anni Venti-Trenta, mantiene il vigore di un’opera d’arte totale”, insomma un esperimento riuscitissimo in dialogo con epoche distanti lanciato a tutta forza contro l’apparente immobilismo del presente.

Il tour che ne seguirà, a fronte di un successo senza precedenti sia di pubblico che di critica, è composto da spettacoli multimediali, con l’ausilio di video teatrali coordinati dalla regista Cinzia Bauci, che in quegli anni trasformeranno i Bazar in eccezionali performer, sulla scia di artisti come Laurie Anderson o i nostrani CCCP.

Di gioco e tenzone è intrisa pure la parabola artistica di Alberto Camerini, impegnato anch’egli con il teatro, in un ridisegno irridente e deformato di vecchie maschere del teatro popolare, geniale a sciogliere le tensioni melodrammatiche della tradizione italiana nell’alto mare aperto della cibernetica.

Camerini è un classico, forse all’insaputa dei molti che ancora ne snobbano la discografia, grazie a canzoni come “Rock’n’Roll Robot” e “Tanz Bambolina”, che “dietro l’apparente sciocchezza dei ritornelli nascondono riferimenti politico-filosofici piuttosto importanti”

Nella prima “la fanno da padrone il transumanesimo e i motti settantasettini di Autonomia Operaia (“lui” – il robot – “lavora duro / tu libera sarai)”, mentre in “Tanz Bambolina” si toccano i temi della meta filosofia del linguaggio derridiana e della Differenza e ripetizione di un Deleuze (la stessa frase, “ti amo”, ripetuta in loop con lingue diverse) oltre a quella che sarà l’incomunicabilità otaku del futuro (“come faccio a dirti vuoi ballar con me / se non riesco a dirti vuoi ballar con me”).

In quegli anni il gioco e la maschera influenzano la sghemba figura di Camerini, a tal punto da palesarsi come “arlecchino elettronico”, “il moderno servo povero che mantiene in sé le caratteristiche demoniache delle origini (il rock, la musica del diavolo) e l’apparente stupidità dei lazzi (il pop, leggero come una piuma ma forzatissimo, proprio per dare fastidio) fuse dall’elettronica (l’incognita del futuro ancora politicamente non inquadrabile)”.

Un percorso, quello del cantautore milanese di origini brasiliane, che proseguirà non senza inciampi, segnato da un declino artistico ancorché fisico (schiacciato sotto il tallone dell’alcolismo) che lo allontaneranno progressivamente dalle scene già dalla seconda metà del decennio.

Tutto questo, però, non prima di aver “tirato fuori dal cilindro il singolo capolavoro “Computer capriccio”, che in pochissimi minuti mescola musica da videogame, punk rock, arie d’opera e il suo classico retroterra seicentesco: “Noi siamo così / generazione elettronica”, il manifesto insuperato non tanto di una generazione, ma di circa tre, con una lungimiranza spaventosa in frasi come “se il futuro ti spaventa non puoi più farci niente, oramai è qui”, ed è solo il 1983”.

Uno scherzo, buffo e assai drammatico, quasi fanciullesco, fuori dalla portata degli adulti perché nelle parole di Calvino “i grandi sono una razza ambigua e traditrice, non hanno quella serietà terribile nei giochi propria dei ragazzi, pure hanno anch’essi i loro giochi, sempre più seri, un gioco dentro l’altro che non si riesce mai a capire qual è il gioco vero”.

Camerini, forse suo malgrado, aveva scoperto le carte, e rivelato agli ingenui il tradimento delle regole di un futuro mai come oggi ricolmo delle inquietudini allora solo all’orizzonte; o più probabilmente “i grandi” devono capire quale sia “il gioco vero”, dove si alligni la minaccia della macchina e sconfessarne, infine, la fede che ci imprigiona a lei.

(Alberto Scuderi)

Articolo che appare anche su Aster Magazine, per reciproca volontà degli autori ed editori.