A Parigi Sharon Van Etten e L’Rain si avvicendano sul palco in una serata scoppiettante

Qualche giorno fa – il 15 giugno 2022 – sul palco della prestigiosa sala concerti parigina de La Cigale sono salite sul palco due artiste tanto lontane nel tipo di offerta musicale prodotta quanto vicine e profondamente in sintonia per quanto concerne la sensibilità e la caparbietà con le quali danno vita alla loro arte, in studio come sul palco. Le due eccellenti autrici sono Sharon Van Etten, al suo sesto LP, a tredici anni di distanza dall’esordio discografico, e l’opening act della serata, L’Rain, band sperimentale di Brooklyn che prende il nome dal moniker della sua leader, che hanno conquistato e ipnotizzato gli spettatori, accorsi come al solito numerosissimi, in uno spettacolo furioso e infuocato che ha dimostrato quante caratteristiche abbiano in comune le due autrici.

A salire sul palco una decina di minuti prima delle 20 sono i L’Rain, ensemble sperimentale di Brooklyn che prende il nome da quello (d’arte) della sua leader, che da qualche settimana suona e canta seduta perché ha subito un infortunio prima di partire per l’Europa (è anche costretta a muoversi con l’aiuto di stampelle). La straordinaria capacità di L’Rain di essere al medesimo tempo avanguardia, noise rock, free jazz e finissima costruttrice di melodie accattivanti è un vero miracolo. I quattro musicisti che le sono a fianco sembrano costruire intorno a loro – e intorno a lei – una specie di gabbia dorata entro i cui confini tutto è possibile: forzare e sfilacciare la metrica, decostruire le ritmiche, cucire e strappare motivi che all’improvviso, quando pensavi si sarebbero risolti in una certa maniera, vengono ribaltati. Un anno fa è uscito il secondo lavoro del gruppo, Fatigue, nomen omen che descrive con puntuale realismo la difficoltà nel creare un disco così complesso e l’impegno profuso per far sì che nulla fosse lasciato al caso. Se l’LP di debutto non aveva fatto parlare troppo di sé, forse anche per la direzione sonora ancora un po’ acerba, con Fatigue L’Rain si è guadagnata una posizione di tutto rispetto nella scena sperimentale statunitense e internazionale.

Suonando sia la chitarra sia il basso, cantando come se la musa parlasse attraverso di lei, attorniata da musicisti eccelsi che sembrano immergere i loro corpi nelle storie cui danno vita, L’Rain sembra una sacerdotessa pronta a celebrare un rito iniziatico. Lo show, infatti, ha tutti i caratteri di un’esperienza misterica, e anche le luci e il fumo contribuiscono ad accentuare questa particolarissima dimensione. Lei ha qualcosa di magnetico, che si ricollega ai ritmi ancestrali della terra. Allo spericolato tentativo di interpretare in senso olistico la realtà si associa la poetica del frammento, l’elemento che spiazza, quella maglia rotta di montaliana memoria che ti costringe a provare finalmente a respirare. Si tratta di epifanie non annunciate, che compaiono durante i brani e provano a disegnare una via d’uscita, temporanea e forse mai esistita. L’Rain si fa strada tra le claustrofobiche cavalcate di “Round Sun” e “Take Two”, percorre con autorevolezza le montagne russe di “Find It”, tenta di illuminare gli angoli di buio della bellissima “Blame Me”. È un set solido e spietato, quaranta minuti impegnativi e intensi.

Alle 21 è il momento di Sharon Van Etten, che sale sul palco insieme al suo gruppo, accompagnata da fasci di luce che illuminano il suo outfit scuro e che presto si abbassano per dare alla scena un’impronta decisamente fosca. Sharon e la sua band hanno un’intesa fantastica, magneticamente appesi l’uno all’altro. Con la sua touring band ha inciso il brillante We’ve Been Going About This All Wrong, uscito poco più di un mese fa, e la maggior parte della scaletta pesca da quel disco. Charley Damski, che suona la chitarra e all’occorrenza la tastiera, ha una potenza sanguigna. Sharon cerca spesso ciascun componente della band, in particolare tastiere e chitarre, ma straordinari sono anche i momenti in cui cerca un dialogo con gli elementi ritmici di batteria e di basso. Ciò contribuisce anche a creare un’armonia sinestetica tra la musica e l’aspetto visivo. Il gruppo – un quintetto, Sharon compresa – si muove con sicurezza tra i brani dell’ultimo disco, che – è evidente – rappresentano per Sharon un passaggio obbligato per far capire al pubblico che tipo di persona sia in questo momento, quale vita stia conducendo, che cosa le sia successo negli ultimi anni, questioni cruciali che la cantante ha rimarcato spesso nelle chiacchierate con gli spettatori tra un brano e l’altro. Il rapporto tra Sharon e i suoi fan è molto empatico e schietto, una relazione diretta e sincera, priva di qualsiasi filtro, nella quale Van Etten cerca sempre di incontrare una validazione evidente del proprio lavoro da parte dei suoi seguaci. Le reazioni esplosive dei fan nelle monumentali “Come Back”, “No One’s Easy to Love” e “Mistakes” rimarcano quanto il filo tra loro e la cantautrice sia al tempo stesso sottile e resistente: ritrovarsi dopo anni così difficili fa tirare un sospiro di sollievo a entrambi i “lati” della sala, e la gratitudine che prova Sharon verso chi è a La Cigale per ascoltarla è pari alla gratitudine che il pubblico le mostra dal primo all’ultimo istante. Il concerto, tuttavia, esplora anche tonalità cupe e, coerentemente con il repertorio dell’autrice, alterna momenti liberatori a capitoli sommessamente meditativi.

La scaletta è solida. Come detto il gruppo pesca soprattutto dall’album uscito quest’anno, ma parecchi sono i pezzi tratti dal penultimo; da Tramp Sharon esegue la fantasmatica “All I Can”, mentre da Are We There compare “Every Time the Sun Comes Up”, dall’abito allegro e solare, e da Epic viene selezionata “Save Yourself”, anch’essa accolta con uno scroscio di applausi dal pubblico. Dell’ultimo disco brillano soprattutto “Darkish”, primo pezzo dell’encore, spettrale e drammatico, che Sharon esegue da sola con un gelido gettito di luce addosso, la successiva “Darkness Fades”, che dà il titolo al tour, e le potenti e vibranti “I’ll Try” e “Born”. Scariche particolarmente dirompenti sono emanate dai brani tratti da Remind Me Tomorrow, tutti accompagnati da una partecipazione emotiva trascinante da parte di Van Etten, che li vive e li scolpisce parola dopo parola, gesto dopo gesto, danza dopo danza. “Comeback Kid” è abbacinante e graffiante: le voci e la spinta del pubblico si fondono in maniera quasi terapeutica con quella di Sharon e coi cori prodotti dal gruppo, mentre gli strumenti – un basso incalzante, tastiere e chitarre pungenti, una batteria martellante – sembrano cercare di recuperare un passato di difficile decifrazione. La conclusione del concerto è affidata a “Seventeen” e segna un fondersi degli animi di Van Etten e del pubblico, che sembriamo metaforicamente spostarci sul palco con lei proprio mentre lei aumenta il contatto, anche fisico, coi fan delle primissime file, toccando mani e mandando baci, dopo un’ora e mezza dalla forte carica emozionale.

(Live report e foto di Samuele Conficoni)