MITSKI, “Laurel Hell” (Dead Oceans, 2022)

In Laurel Hell, il suo sesto album, Mitski avanza con autorevolezza e maturità nella direzione già tracciata sin dal suo disco di esordio, nel tentativo di mostrare e di analizzare tutte le proprie fragilità vivendo e percorrendo le sue stesse composizioni con un fuoco passionale e inestinguibile, il cui maggior punto di forza sta nell’approfondire con un occhio critico, sia psicologico sia psicanalitico, il complesso rapporto con il proprio percorso artistico. Dal punto di vista musicale, Laurel Hell è un’ulteriore nuance del sound massimalista e scoppiettante di Mitski, il cui cantautorato art rock condito di ritmi e melodie imprevedibili è fortunatamente difficile da etichettare. In questo magma si muovono sottilmente, in un ecosistema a loro congeniale, le turbe e le difficoltà cui Mitski dà sfogo.

“Let’s step carefully into the dark”, canta Mitski in “Valentine, Texas”, brano di apertura di Laurel Hell, che sin dall’inizio certifica a che punto sia la cantautrice nel proprio percorso di crescita artistica e personale. Anima tormentata e sensibile, nella sua musica Mitski mette a nudo sé stessa da sempre, diventando un tutt’uno con quello che canta, con i ritmi spesso originali e pulsanti delle sue composizioni, con le scariche di chitarra che inventa, con l’adrenalina che emana la sua voce, ruvida e al tempo stesso gracile, che ci conduce negli spazi più reconditi e oscuri della sua (e nostra) psiche. I synth glaciali del deserto mentale che è “Working for the Knife”, splendidamente incastonata nelle idiosincrasie che il testo mette in luce e nell’andamento ipnotico che gli strumenti e la voce contribuiscono a costruire, rendono il pezzo un momento fondamentale nella comprensione dell’opera. Il buio in cui siamo precipitati nell’opener “Valentine, Texas” è diventato la normalità, condicio sine qua non potremmo continuare a esplorare l’anima di Mitski, che ci conduce per mano in questo viaggio tortuoso.

Quasi astraendosi da sé e osservando la sua esistenza da fuori Mitski si ritrova meravigliata di quello che ha intorno. Canta con sorpresa “I used to think I’d be done by twenty / Now at twenty-nine the road ahead appears the same” mostrando una franchezza straordinaria. La dolce e fatata “Everyone”, guidata da un piano onirico e splendido, ribadisce il concetto: “I opened my arms wide to the dark”. La sua luminosità melodica dà vita a un’antitesi terrifica; intanto i dubbi e le indecisioni di Mitski salgono in cattedra: “I didn’t know that I was young / I didn’t know what it would take […] / Sometimes I think I’m free”. Come in tutti i dischi di Mitski, le canzoni si susseguono una dopo l’altra con grande rapidità, e questo rende ogni lavoro estremamente diretto, anche quelli più complessi e diversificati, come il precedente o questo: occorre fare i conti sin dal primo ascolto con ciò di cui Mitski canta, perché siamo colpiti da note e parole con una forza e una intensità rare che potremmo presto sentirci soffocare. E se nessuna composizione qui è forse al livello delle migliori di Be the Cowboy il risultato finale non è poi tanto inferiore a quello che aveva raggiunto quel disco.

La relazione tra Mitski e il proprio percorso artistico è tormentata e difficile. È questo uno dei temi ricorrenti, se non quello principale, di Laurel Hell, e quasi tutto ciò che viene narrato nel disco è ricondotto, in un modo o nell’altro, entro le paure e le incertezze della cantautrice. Così in “The Only Heartbreaker”, uno dei momenti più eccezionali dell’album, dove Mitski si cala negli Anni Ottanta dando vita a uno degli episodi più pop di tutta la sua carriera, un’esplosione caleidoscopica di synth, batterie riverberate e chitarre avvolgenti, è lei a piazzarsi sul banco degli imputati, sconfitta a priori e sempre costretta a chiedere scusa, come non dimentica di fare nel corso del pezzo. Il convincente videoclip la mostra inghiottita dalla terra che si apre sotto i suoi piedi tra fiamme e tempeste di sabbia: “I’ll be the loser in this game / I’ll be the bad guy in the play”, canta Mitski, certa di essere, appunto, “the only heartbreakеr”. Nella ariosa e poetica ballata “Love Me More” dice a se stessa: “I could be a new girl / I will be a new girl”. Auspica una metamorfosi, e alla fine prega l’interlocutore di amarla di più, non senza, però, implorarlo di aiutarla a cambiare e a purificarsi: “Drown it out, drown me out […] Clean me up, clean me up”.

Mitski ha lavorato a Laurel Hell in maniera piuttosto continuativa negli ultimi tre anni, con in testa lo scopo di dare alla luce qualcosa di profondamente diverso da Be the Cowboy, dai più considerato il suo lavoro migliore, pur rimanendo fedele a se stessa, ai temi a lei più cari e al suo inconfondibile stile compositivo. Il cambiamento che Laurel Hell esprime rispetto al suo predecessore è principalmente quello di non “porre muri” tra lei e l’ascoltatore, come ha rivelato in un’intervista per Crack Magazine, intendendo con ciò forse l’approccio lirico spesso allegorico e diffusamente ermetico che era la grande forza e originalità del suo precedente lavoro.

Nonostante ciò Mitski non si distacca poi molto da quel metodo: le canzoni sono meravigliosamente avvolte da quel velo di ambiguità e di irresolutezza che le rendono uniche. Momenti narrativi di grande brillantezza si alternano a vere e proprie confessioni altrettanto ispirate e roboanti numeri pop massimalisti e vivaci convivono accanto a ballate austere, romantiche e raffinate. Questo è sempre stato il suo marchio di fabbrica, e anche in Laurel Hell Mitski sa tenere insieme con coerenza e con gusto le varie nature delle quali partecipa. È un percorso di crescita, l’ennesimo, che si snoda in poco più di mezz’ora. Da esso si esce con una consapevolezza e una fermezza decisamente maggiori. “From here, I can tell you, ‘Thank you’”, canta Mitski in “I Guess”, ed è anche attraverso queste rivelazioni che la sua opera giunge a noi luminosa.

76/100

(Samuele Conficoni)