La nascita del trip hop: “Blue Lines” compie 30 anni

“Blue Lines” dei Massive Attack uscì l’8 aprile 1991 e compie oggi 30 anni: lo ripercorriamo perché è uno di quegli album che non possono essere dimenticati.

Solitamente, per analizzare “Blue Lines”, i commentatori partono – giustamente – dagli anni Ottanta e dal Wild Bunch. Del resto l’esperienza del collettivo posse di Bristol, di cui facevano parte quelli che saranno i Massive Attack con in più Nellee Hooper, che successivamente si sarebbe unito ai Soul II Soul, e Miles Johnson, noto anche come dj Milo, era di quelle che rimangono scolpite nella storia di una città, di Bristol nel qual caso. Perché al Dug Out, un minuscolo locale buio e fumoso diventato il fulcro musicale della città, dal 1983 in avanti il Wild Bunch era il sound system che metteva su di tutto, soprattutto hip hop newyorkese ma anche soul e reggae, oltreché house e jazz. Una squadra di dj senza steccati mentali. Il quartiere ultra-popolare di St. Paul era perfetto per assorbire questo miscuglio di culture, sia quelle etniche che lo popolavano che quelle musicali che la gioventù universitaria di Bristol, aperta e senza la puzza sotto il naso di Londra, seguiva e propugnava. Ma forse quando si parte dal Wild Bunch per descrivere “Blue Lines” si guarda un po’ troppo lontano, come a dire che per capire Roberto Baggio bisogna analizzare quando era alle giovanili: certo, ma forse è più importante sottolineare i passaggi al Vicenza e alla Fiorentina.

Allo stesso modo lo snodo fondamentale dei Massive Attack è la conoscenza con Neneh Cherry e con quello che diventerà poi il marito di lei, ovvero Cameron McVey, avvenuta nel 1989. Per emergere cioè il Bristol-sound doveva andare a Londra, era lì – volenti o nolenti – che c’era la musica che contava, quantomeno c’erano anche più produttori. Per cui dapprima 3D dei Massive Attack aiuta la Cherry nel suo debutto “Raw Like Sushi” (1989), e poi la Cherry – artista cosmopolita e anche portante un nuovo tipo di approccio femminile se non femminista – ricambia il favore mettendo in contatto i Massive, tramite McVey, con la Circa Records (che sarà l’etichetta che pubblicherà “Blue Lines”, poi finita in ambito Virgin). In “Raw Like Sushi” 3D è coautore di una canzone bellissima, il singolo “Manchild”, mentre Mushroom produce tre brani, “The Next Generation”, “So Here I Come” e il singolo “Kisses On the Wind”. Una collaborazione feconda.

E per capire bene “Blue Lines”, soprattutto 30 anni dopo, non è importante soffermarsi su quella meraviglia che è “Unfinished Symphathy”, un po’ perché la conosciamo tutti e siamo anche noi con la cantante Shara Nelson che nel video cammina – straziata dal dolore della perdita dell’amato – a Los Angeles, ma su un paio di canzoni più rappresentative del cambio di passo che compiono i Massive Attack.

La prima è “Daydreaming”, in cui finalmente 3D e Tricky capiscono quale è il loro modo di “rappare”: non imitando l’hip hop statunitense, ma creando un proprio flow personale, che sia come una nuvola, etereo, sussurrato. Che rimane tra un sospiro sensuale e una minaccia. Prima i Massive Attack non c’erano riusciti, e nei (pochissimi) singoli precedenti a “Blue Lines” (i pochi del Wild Bunch e “Any Love” del 1988) i tentativi erano stati derivativi. “Daydreaming” è anche, metaforicamente, il primo singolo estratto, ad ottobre 1990, come a dire “questa è la strada”.

Il secondo brano fondamentale è quella “Hymn of The Big Wheel” messa in chiusura, perché era – allo stesso tempo – il passato e il futuro: il legame con il proprio vissuto era nel cantato di Horace Andy che creava il link con la cultura reggae molto forte a Bristol, in cui erano cresciuti Daddy G, Mushroom e 3D, e le prospettive future erano date dal fatto che è la prima canzone in cui non ci sono campionamenti. I Massive Attack erano in fondo dei dj, ma iniziavano a capire che dovevano iniziare a fare i musicisti. E “Hymn of The Big Wheel” (composta da 3D con l’aiuto, guarda caso, di Neneh Cherry) sembra quasi che si materializzino dei Kraftwerk in salsa soul, con un’apertura in maggiore che – alla fine – chiude positivamente “Blue Lines”. Che non è un album dark come sarà “Mezzanine”, e non è nemmeno così pop come “Protection”: è il primo vagito di un gruppo che rimescola tutto, e che lo fa non da musicisti ma da dj.

Poi il trip hop entrerà nel vivo solo nel 1994 quando si aggiungeranno i Portishead al Bristol sound, ma “Blue Lines” aveva già tracciato la direttrice e posto i paletti del genere: non avere paletti (“la prima regola del Fight Club è: non parlare mai del Fight Club”). Il trip hop non esiste perché può assumere infinite forme, e lo dimostrerà. Per ora in “Blue Lines” si mostra sensuale, psichedelico, world, cool, chill-out, con gusto gospel, con tempi reggae, orchestrale, house e dai flow hip hop. Ed è già tanta roba.

(Paolo Bardelli)

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La recensione di “Blue Lines” pubblicata su Kalporz nell’ottobre 2000