SUFJAN STEVENS, “The Ascension” (Rough Trade, 2020)

Qual è il processo per raggiungere una maggiore consapevolezza, come si sviluppa e cosa lo genera? Potremmo chiederlo a Sufjan Stevens, che con “The Ascension” non solo raggiunge la consapevolezza, ma tenta di elevarsi spiritualmente al di sopra delle percezioni e sensazioni terrene. Completo, denso e dettagliato, un elettro-opus di emozioni complicate che tenta di ricostruire il suono azzerando il passato, cercando risposte urgenti ai problemi presenti.
Malgrado Stevens non abbia condiviso totalmente le ispirazioni alla base della genesi ed evoluzione dell’ultimo lavoro è chiaro che, ancora una volta, si è trovato ad affrontare temi strazianti e importanti sia personali che sociali e politici.
Cambiamento, trasformazione, soccorso; chi di noi non sta tentando nella propria esistenza di raggiungere disperatamente queste condizioni? Come si fa dunque a superare le altezze?
Per l’artista americano, la risposta sembra essere stata quella di tenersi impegnato con quante più cose possibili in attesa della “luce”: l’ispirazione.
Negli ultimi cinque anni, infatti, ha fatto tutto tranne che pensare di dare un seguito a “Carrie & Lowell”: ha curato una compilation di remix, ha realizzato un DVD live, ha contribuito alle colonne sonore di film, ha collaborato con vecchi amici su un intrigante ma imprevedibile ciclo di canzoni semi-elettroniche sul sistema solare, ha scritto un album ambient con il suo patrigno e la lista è ancora lunga, ogni esperienza è un tassello che lo ha portato a prendere definitivamente le distanze da quel percorso sonoro intrapreso precedentemente e che tutti davano per scontato.
Con “The Ascension”, Stevens ci regala un confessionale di 80 minuti elettro-pop, registrato principalmente a casa su un computer, che incorpora schizzi di EDM, R & B anni ’90, synth industriali e musica glitching nevrotica in una gigantesca, densa, lastra ipnotica; un vasto universo di suoni audaci di sintetizzatori Prophet. Non ci sono tracce da eliminare, ma alcune sicuramente non sono all’altezza del resto, come “Die Happy” – che contiene il testo cantato in loop “I want to die happy”, affidandosi a colpi di scena e alle stratificazioni dei sintetizzatori per aggiungere nuove dimensioni al mantra – o brani come “Ativan”, “Death Star”, “Goodbye to All That” e “Gilgamesh” che risultano troppo irrilevanti o troppo dissonanti e volatili e, in alcuni casi, entrambe le cose contemporaneamente.
Concepito come un unico lungo pezzo d’atmosfera oscuro e razionalmente distaccato, l’album soffre la mancanza di testi che tocchino le corde emozionali consentendo una reale fusione profonda tra musica e liriche. Ma questo in fondo era ciò che Sufjan desiderava: “Ogni titolo della canzone dell’album è un cliché” ha ammesso a The Quietus e ancora “Sono alla disperata ricerca di una sorta di banalità, che mi dica dove andare e come svolgere la mia attività in modo sano e sostenibile”.
Anche se spesso emergono delle ripetizioni e ci si trova in un ambiente musicale già consumato, nel complesso il tutto suona incredibilmente bene: questo, insieme al suo caratteristico modo di scrivere, rende l’ottavo album in studio dell’artista un’aggiunta solida al suo catalogo.
Il singolo principale, “America”, è stato scritto all’epoca di “Carrie & Lowell”, ma ritenendolo troppo “meschino” per essere incluso accanto a materiale prevalentemente malinconico Stevens ha deciso di accantonarlo. Quando si è imbattuto di nuovo nella registrazione della demo, pochi anni dopo, è rimasto “scioccato dalla sua premonizione”.
In dodici minuti e mezzo viene sviscerato l’amore per il proprio Paese, mentre esso scivola lentamente e inesorabilmente verso un triste declino:“Don’t do to me what you did to America”, le liriche urgenti si perdono in una nuvola statica di suoni costruita su gigantesche colonne di composizione alla disperata ricerca di un’anima, il che risulta essere ironico per uno capace di interpellare le profondità dell’animo umano grazie ai suoi arrangiamenti celesti.
E’ indubbio comunque che questo sia un album ricco di colpi di scena e la maestria con cui Stevens combina suono, ritmo e voce in loop in modo tale da creare una leggera, ma permanente, aria di disagio, è unica.
“Videogame” e “Lamentations” non potrebbero essere più diverse tra loro; nella prima si esprime un sentimento di autoaffermazione: “I wanna be my own believer” e uno stanco distacco dalla malinconia esistente, mentre in “Lamentations” emerge il desiderio di essere solenne e intimo allo stesso tempo: “I have always wanted to be here with you, love me the first time, love me the last time”.
In “Make Me an Offer I Cannot Refuse” il cantante sembra evocare Björk ai tempi di “Vespertine” grazie all’alternanza di battiti martellanti combinati alla dissonanza stridente: “I have lost my patience” confessa affaticato a Dio, quasi fosse in cerca di risposte per andare avanti. Circondata da synth e melodie angeliche, la traccia sembra mutare con la stessa velocità di nuvole cariche di pioggia che compaiono all’orizzonte dopo un caldo pomeriggio di sole, mosse da un vento gonfio di rabbia e rassegnazione.
Nonostante la sua vastità, “The Ascension” lascia all’ascoltatore un senso di precarietà, rimane la sensazione di fondo che con o senza fede in un potere superiore – Dio, o un amante, o l’idea astratta dell’amore stesso – dobbiamo affrontare e risolvere da soli i nostri demoni personali e universali e, per riuscirci, l’unica cosa che possiamo fare è provarci: “I thought I could change the world around me, I thought I could change the world for best … What now?”. E ora?

70/100

(Simona D’Angelo)