NORAH JONES, “Pick Me Up Off The Floor” (Blue Note Records, 2020)

Una serie di canzoni che provengono principalmente da bozze create per il suo precedente album di inediti “Day Breaks”, pubblicato nel 2016, mostrano Norah Jones alle prese con un quasi inedito tentativo di unire alla sua spontanea propensione a dar vita a semplici melodie jazz e pop una volontà di espandere gli orizzonti della sua musica. In “Pick Me Up Off the Floor” l’utilizzo di archi e pedal steel conduce i brani in territori spesso misteriosi e onirici. Non è certo una rivoluzione ma, rimanendo nel bene e nel male fedele a se stessa, Jones mostra la volontà di modificare alcune delle caratteristiche del suo modo di arrangiare e di scrivere, forte anche di alcune recenti collaborazioni, come quella con Jeff Tweedy dei Wilco, cruciali per la sua carriera.

“This life as we know it is over”, canta Norah Jones in “This Life”, fulcro tematico, forse involontario, del disco, una canzone scritta prima di questa storica pandemia, che oggi diventa un manifesto dei tempi che stiamo vivendo e un grido di speranza sincero perché le difficoltà sperimentate nel corso di questi mesi non siano vane e possano diventare una lezione per l’umanità. Mani che tremano, braccia aperte, legami spezzati, cuori congelati. Talvolta, anche dove prevale l’ottimismo, Jones si immerge in territori oscuri, in zone cupe e complesse della propria psiche, trascinata dal pianoforte e da un ritmo ipnotico. Pur non riuscendo mai a esplorarle in maniera totale, tenta di dar loro una voce e una forma. L’esempio perfetto di questa attitudine è proprio nel brano di apertura, “How I Weep”, dove Jones piange una grave perdita e sembra, più che camminare, strisciare, trascinarsi, spezzando i versi e le frasi, quasi singhiozzando.

È una ricerca che Jones non aveva quasi mai compiuto, un percorso di crescita non sempre coerente ma onesto, significativo e ambizioso, piuttosto lontano dalle strade che la cantautrice aveva esplorato finora. Di ricerca, unita ai dubbi e alle fiamme, si parla nella straniante “Flame Twin”, sorretta da un tappeto di organo e da una pioggia di note dolci e soffuse, mentre nella romantica “Heaven Above”, che conclude l’album in modo non conciliante, Jones tratteggia i contorni di una mancanza, qualcosa di andato perduto e mai del tutto superato. Ciò si rintraccia anche nella già citata “How I Weep”, tragica e secca, dove Jones prova a scuotersi in mezzo ad archi eleganti. Spesso è la voglia di ribellarsi a essere protagonista, come nella delicata “Were You Watching?” e nella misurata “To Live”, una ballata, la prima, più ambiziosa rispetto agli standard di Jones per composizione, arrangiamento e produzione, un folk jazzato, la seconda, coinvolgente e ritmato, che non risulta mai troppo forzato. “My mind is spinning / Hopelessly out of control”, canta Jones in “Heartbroken, Day After”, tentando di superare una delusione rovente. La sua voce ferita si insinua leggera tra le fessure che aprono pedal steel e pianoforte, costruendo, anche in questo caso, una ballata più avvolgente rispetto a molte di quelle presenti in alcuni dei suoi dischi recenti.

Jones non si rifugia in una dimensione lontana dalla realtà. È cosciente del fatto che la sua musica possa avere anche una funzione sociale e rappresentare un rifugio per chi non si accontenta di ciò che ci circonda. Ha dichiarato, infatti, che il titolo dell’album ha due significati principali. Rappresenta sia il raccogliere da terra le canzoni, quelle bozze non terminate, sia il bisogno di rimettersi in piedi, dal momento che le canzoni sono principalmente tristi e disperate e per ripartire serve un sostegno, un appoggio, che si manifesta concretamente e spiritualmente nella musica e nelle parole delle quali l’album è fatto. C’è anche qualche momento di ribellione a questo stato d’animo. Jones non ci sta, vuole che la disperazione si tramuti in grinta. Questa spinta positiva è chiara in brani come “To Live” e “I’m Alive”, quest’ultima registrata insieme a Jeff Tweedy e con il figlio di Jones, Spencer, alla batteria, probabilmente il momento più elettrizzante del disco.

I testi si fanno rarefatti, un po’ vaghi. Sono scarni, allusivi, spesso accompagnati da un apparato musicale altrettanto spoglio, solo qua e là integrato da elementi che riempiono i pezzi e li espandono, come pedal steel e violini. Prevalgono semplicità e sintesi, come in “Hurts to Be Alone” e nella frammentata “Stumble on My Way”. Jones riesce a coniugare la sua naturale tendenza alla semplicità con una innovativa spinta a complicare le cose, a non accontentarsi della superficie o dell’aspetto più tradizionale degli strumenti e dei generi, arrivando così, non senza qualche scricchiolamento, a un’opera di respiro più ampio rispetto a molte di quelle che aveva pubblicato finora.

70/100

(Samuele Conficoni)