MOSES SUMNEY, “græ” (Jagjaguwar, 2020)

Non è più nemmeno solo un argomento, ma il contesto in cui viviamo: un costante sottofondo delle nostre vite al quale anche la musica, per sopravvivere, si deve adeguare. il rumore bianco della nuova era sta già rivelando al pubblico gli artisti che non lo sanno ascoltare e capire, rendendoli stonati con l’ambiente. Così, alla metà del 2020, si deve iniziare una conta dei sopravvissuti. E forse è solo in un panorama stravolto come questo, dove la capacità di ascolto è un requisito importante come forse non è mai stato prima per fare musica  – perché di cose nuove da ascoltare, o cose che sono sempre esistite ma che dopo tutto quello che è successo non possiamo più fingere di non sentire, non ce ne sono mai state così tante tutte insieme – che un artista come Moses Sumney può essere davvero libero di essere se stesso: il lato B di “græ” stravolge aspettative già alte consegnandoci, dopo i richiami e le allusioni di una prima parte che ci aveva preparato ad accoglierli, i significati e i valori più profondi alla radice della sua musica.

Il clima è rarefatto. In questa seconda parte, negativo contemplativo del concept di “græ”, la maggior parte delle tracce sono avvolte in una nuvola di suoni ridotti all’essenziale. La sottrazione del superfluo è un processo rischioso, specialmente se associato a una liricità profonda, densa di rimandi al poetico e al letterario come quella di Sumney: ma la versatilità della sua voce è in grado di guidare il ritmo e sorreggere le intenzioni di ogni pezzo, costituendosi a volte come narratrice, a volte come semplice strumento al servizio, insieme agli altri, della storia di una vita, o meglio: della storia di una creazione. D’altronde “A lot of creation stories begin with separation”, come si scopre – o si riscopre – in “Before You Go”.

In tutto l’album la tensione intercorre tra gli opposti e tra i simili, in un’instancabile dialettica tra le diverse parti che costituiscono l’io dell’artista e il suo rapporto con quelle dell’io di chi lo circonda: in “græ” Moses Sumney scompone se stesso, gli altri, il mondo, per poi ricomporre tutto nel finale di un nuovo linguaggio che promette un modo di fare musica lontano dal grigio.

L’esperienza musicale e esistenziale di Sumney è, dunque, la linfa vitale che da origine a riflessioni solenni dall’aria volutamente profetica, nella sottotraccia di una filosofia intima ormai matura: così le oniriche, quasi oracolari “Two Dogs”, “Bystanders” e “Me in Twenty Years” – merito, almeno in parte, dell’intervento in produzione di Oneohtrix Point Never – alle quali seguono la semplice melodia alla chitarra di “Keeps Me Alive” e il beat soffice e flautato di “Lucky me”, ennesimo nucleo parzialmente indipendente all’interno di “græ” dove Moses continua un discorso già fatto altrove e soprattutto in ”Aromanticism” (2017) rispetto alla ricerca di un amore che possa compiere un destino.

Il cuore di “græ” arriva nelle ultime due tracce, quando ormai lo si pensava già ascoltato da qualche altra parte nell’album: non è importante sapere se Sumney le abbia composte o perlomeno rimaneggiate alla luce degli avvenimenti del nuovo decennio, ciò che conta è che esse si prestino, in ogni caso, perfettamente al momento, testimoniando il dolore di una separazione dagli altri che è separazione anche da una parte di se stessi. La narrazione commossa e rassegnata di questa esperienza che è sempre, contemporaneamente, individuale e collettiva si circonda di un’orchestra affollata di suoni ma non per questo meno delicata che altrove. “Bless me/before you go/you’re goin’ nowhere with me” può volere dire mille cose diverse, ma tutte coincidono nell’eterna conversazione dell’uomo con la solitudine. Esse non offrono una soluzione alla paura universale di perdersi e di perdere qualcuno ma rivendicano, al di là dei nostri limiti, il desiderio di essere vivi, e di non esserlo da soli.

85/100

(Claudia Calabresi)