La Top 7 delle canzoni di Sufjan Stevens

Il ritorno di Sufjan Stevens, seppure duo con Lowell Brams, con l’album “Aporia” è l’occasione per dedicare al musicista americano una top 7 alla ricerca – difficilissima su chi come lui ha oramai una discografia così importante – delle sue canzoni più belle.

7. “Visions Of Gideon”, da “Call Me by Your Name: Original Motion Picture Soundtrack” (2017)

È difficile parlare di questo pezzo staccandosi dal film di Guadagnino. Sarebbe ovvio considerarla una canzone sull’amore, ma il riferimento biblico è troppo incombente per non interpretarla in modo più spirituale. Il parallelismo è infatti tra la potenza dell’apparizione di Dio a Gedeone e l’incredulità verso il ricordo di un amore così travolgente da non sembrare nemmeno reale. Un’incredulità accentuata dall’atmosfera onirica dei suoni ovattatissimi.
Si è davanti ad una canzone erotica nel senso neoplatonico del termine, dove l’eros è un tendere a Dio.
È facile considerarlo un brano con protagonisti Elio ed Oliver, ma farlo significherebbe non rendere del tutto giustizia alla profondità di un pezzo ispiratissimo di un grandioso songwriter. (Carmine D’Amico)

6. “Say Yes! To Michigan!” da “Michigan” (2003)

Con il suo terzo album studio, “Michigan” (2003), Sufjan Stevens mette mano a un progetto ambizioso: esplorare in forma di racconto il concreto tessuto del paesaggio americano dedicando un disco a ciascuno dei 50 Stati dell’Unione. Nessun luogo se non quello della propria terra natìa poteva costituire la base di partenza di questo programma ambizioso e irrealizzabile, disatteso già un anno dopo dalla svolta di diverso indirizzo intrapresa in “Seven Swans”. Ma è con “Michigan” che Stevens prende padronanza delle proprie qualità di scrittura e di sperimentatore di raffinate architetture folk. Tra i brani, spesso spigolosi, altre volte morbidi e in alcuni frangenti barocchi, la ballata “Say yes! to Michigan!” si inserisce come il tuffo con una polaroid nei colori che hanno segnato l’infanzia. Ed ecco le Cadillac che sfrecciano, l’odore delle fattorie, i fiumi e i laghi, il pensiero delle braccia materne. La canzone inizia su toni delicati di pianoforte per poi toccare il clou con un orchestrazione che include trombe, synth, sitar, chitarre, cori e tamburelli. Di sbieco scorgiamo in primis Donovan e Tim Buckley, ma anche un affaccio sulle tendenze sperimentali in chiave sixties che di lì a poco coinvolgeranno gruppi come i Fleet Foxes. In questa cartolina dei grandi laghi americani entriamo quindi definitivamente in profondità nell’immaginario del songwriter di Detroit. (Eulalia Cambria)

5. “Seven Swans”, da “Seven Swans” (2004)

In quello che a buon diritto sarà ricordato come uno dei tour più spettacolari ed emozionanti del nuovo secolo (quello di The Age of Adz del 2011), Sufjan Stevens, con le sue ali d’angelo apriva lo show con la titletrack di uno dei suoi primi album lasciando tutti senza parole e senza fiato.
Uscito nel 2004, tra minimali gemme di folk bucolico (nel senso più alto e storico del termine) e capolavori di composizione, Spin l’aveva definito l’album scritto da Elliott Smith se avesse fatto dieci anni di catechismo domenicale. Ed effettivamente in “Seven Swans”, che a partire dal titolo è un riferimento al libro della Rivelazione che chiude il Nuovo Testamento, non mancano riferimenti biblici e cristiani che accompagneranno la carriera di Sufjan. Senza ostentazioni, senza intenti evangelici è un album di folgranti allegorie religiose, il ritratto intimo della passione e della fragilità di un uomo comune. (Piero Merola)

Seven horns, seven horns, seven horns / I heard a voice in my mind: “I am Lord, I am Lord, I am Lord”

4. “Wallowa Lake Monster”, da “The Greatest Gift” (2017)

Ci fu una domenica, a ottobre 2017, in cui mi trovai a giocare con mio figlio, che allora aveva due anni, nella piazza del teatro della mia città. Era la prima giornata di nebbia, l’atmosfera era veramente uggiosa, e io e lui avremmo pranzato da soli. Era dal giorno precedente che ero ossessionato da “Wallowa…”, era appena uscita e l’ascoltavo in continuazione, in una forma compulsiva certamente malata: una malinconia assoluta mi assaliva, anzi proprio una commozione totale. Scattai una foto al bimbo che fece l’espressione più contrita di tutte le foto che gli abbia mai fatto, prima e dopo quel giorno. Pensai fosse una casualità, ma non era così: mi stava guardando, e io stavo pensando come sarebbe stato bello, quel giorno, andare a fare domenica dalla nonna, da mia madre, coi tortelli verdi in tavola e il freddo fuori. Ma mia madre non c’era più.
Secondo me aveva colto le sensazioni nei miei occhi, e io – senza aver letto il testo di “Wallowa…” (perché lo feci solo più tardi) – avevo somatizzato tutte le sensazioni di “Wallowa…”.
Che parla dell’essere soli, senza una mamma. (Paolo Bardelli)

3. “Should Have Known Better”, da “Carrie & Lowell” (2015)

Canzone-simbolo di “Carrie & Lowell”, l’album più interiore e umano di Sufjan Stevens. In seguito alla morte improvvisa della madre Carrie, Stevens decide di lasciarsi alle spalle Brooklyn e i sontuosi barocchismi elettronici di “The Age of Az” per recarsi in Oregon e porsi, attraverso un sound puramente acustico e scarno, sulle tracce dei ricordi d’infanzia e del tempo condiviso (ma soprattutto perduto) con la madre. “Should Have Known Better” vive dei contrasti fra luci e ombre, dolore e gioia, rimpianti e speranze. La canzone inizia con un riff oracolare di chitarra acustica, il falsetto mai così struggente di Stevens e l’immagine più volte evocata di un “sudario nero” che schiaccia e incupisce i sentimenti. Il brano si evolve poi attraverso un arricchimento del paesaggio sonoro con controcanti angelici, tastiere che sospendono il ritmo ed effetti di eco e di riverberi che rendono eterea la chitarra dando la sensazione di un’ascesa luminosa verso una ritrovata sensazione di grazia: la nascita della figlia del fratello di Stevens restituisce in parte il vuoto della perdita riportando bellezza e luce nel mondo. (Emmanuel Di Tommaso)

“Don’t back down, nothing can be changed / Cantilever bridge, the drunken sailor / My brother had a daughter / The beauthy that she brings, illumination / Illumination”.

2. “Futile Devices”, da “The Age of Adz” (2010)

C’è chi come me non ha mai avuto un rapporto privilegiato con le canzoni d’amore, ma “Futile Devices” è indubitabilmente una delle canzoni d’amore più intense mai scritte nel nuovo secolo.
Musicalmente fa da ponte tra il Sufjan di “Seven Swans” e quello di “Carrie & Lovell”, ed è la perfetta espressione della sua anima introspettiva e minimale che si scontra da sempre con quell’anima più barocca e cervellotica. Il brano che apre l’eccentrico e a tratti patinato “The Age of Adz” lo porta su quei territori introversi e malinconici da degno e unico erede possibile di Elliott Smith. Sette anni dopo la canzone è diventata un inno alla libertà omosessuale grazie all’inclusione nella soundtrack di “Call Me By Your Name” di Guadagnino, in una versione riarrangiata e cantata insieme al pianista Doveman.
Chi non vorrebbe sentirsi dedicare immagini come quelle che in due minuti Sufjan rievoca per descrivere il suo amante, e parole mai abbastanza toccanti ed espressive che cinicamente definisce “Futile Devices”? (Piero Merola)

“I feel mesmerized and proud / And I would say I love you / But saying it out loud is hard / So I won’t say it at all / And I won’t stay very long / But you are the life I needed all along / I think of you as my brother / Although that sounds dumb / And words are futile devices

1. “Chicago”, da “Illinois” (2005)

È il 20 gennaio del 2004 e il Presidente degli Stati Uniti George W. Bush sta tenendo il discorso sullo Stato dell’Unione. Qualche mese più tardi Sufjan Stevens inizierà le registrazioni di “Illinois”, il disco che lo consacrerà definitivamente come uno degli autori di musica più importanti di quegli anni e degli anni che seguiranno. Che cosa hanno in comune questi due avvenimenti? Nulla, se non quella di appartenere allo stesso anno. Ma per introdurre “Chicago” non c’è forse niente di più adatto di una frase pronunciata di fronte al Congresso dal Presidente texano figlio di papà proprio in occasione di quello State Of The Union Address: «America is the land of the second chance». “Chicago”, che di “Illinois” rappresenta il momento più indimenticabile, è esattamente questo: il racconto di una seconda possibilità. È la voce di un uomo che dopo aver visto la sua vita andare completamente rotoli è riuscito a rimettersi in carreggiata. Non è solo una metafora quella dell’auto e della strada: il testo racconta di viaggi disperati in macchina prima verso Chicago, poi verso New York, di notti a dormire nei parcheggi. È la storia della fuga senza pace da quegli incastri asfittici che la vita spesso costringe ad affrontare, dai quei luoghi angusti in cui non si riesce più a riconoscere – e se guardiamo alle vicende biografiche, per Sufjan Stevens quei luoghi sono prima di tutto persone: i genitori naturali incapaci di crescerlo, i genitori adottivi fissati con la religione. È un grido di libertà strozzato da un pianto colpevole (“If I was crying (…) it was for freedom from myself and from the land“). È la realizzazione musicata poderosamente – con un arrangiamento orchestrale di cori, archi ed ottoni – del fatto che prima o poi il dolore, il pentimento, la rabbia, così come tutte le cose inconcrete che compongono il nostro vissuto, passano e se ne vanno via. Di loro rimane solo il ricordo, e questo è forse l’insegnamento più prezioso di tutti: “all things go, all things go to recreate us”. (Enrico Stradi)