PRINCESS NOKIA, “Everything is beautiful”/”Everything sucks” (Rough Trade, 2020)

L’avevamo lasciata sulla Green line orgogliosa delle sue origini afro-portoricane, innamorata di New York ed entusiasta del suo meltin’ pot artistico e culturale; in “1997 (deluxe)”, ultimo LP pubblicato nel 2017 prima della nuova, doppia release di quest’anno, aveva saputo unire l’old school rap alle tendenze di fine anni ’10 collaborando con un team eclettico di produttori per creare un album variegato e irresistibile come la realtà che descriveva.

Tre anni dopo Princess Nokia sembra essersi allontanata dalle sue origini, e il vuoto di ispirazione prodotto da questa distanza non sembra essere stato compensato da sentimenti e beat altrettanto autentici e sentiti.

“Everything is beautiful” è un album orecchiabile e ambizioso, che nelle intenzioni dell’artista gender-fluid rispecchia il suo lato più femminile e intimo. La produzione in molti casi non si distingue per originalità, appiattendosi un po’ passivamente sul nuovo modello di Tierra Whack; gli arrangiamenti vicini a jazz, funky e “soul pop” come definiti dalla stessa Nokia, uniti alla scelta diffusa di utilizzare strumentazione dal vivo, sostengono il tutto, ma nel complesso la produzione non sembra valorizzare il flow suadente e piacevolmente imperfetto di Princess Nokia come meriterebbe.

Tony Seltzer, produttore principale dell’LP, era subentrato accanto all’artista a partire dal mixtape tra punk e emo rap di “A girl cried red” con risultati disturbanti ma spesso geniali; il successo della loro collaborazione pare interrompersi con questo album. Senza la personalità di Nokia a salvarli, i brani mostrerebbero ancora più chiaramente l’inconsistenza delle basi; al punto che viene da chiedersi se la responsabilità di questo successo a metà non sia da imputare, prima di tutto, a una sintonia ormai finita tra rapper e producer.

Il livello di questo album è altalenante: a un inizio dell’album accattivante ma non di reale impatto segue Wash & Sets, dove Nokia sembra trovare il ritmo giusto per raccontarsi come adolescente alle prese con le bollette e il college, in un rimpianto senza melodramma dell’infanzia in cui tutti ci potremmo ritrovare. E’ già tutto finito: le tracce successive, dal tono più disimpegnato, divertono ma restano in 2D. Brilla la citazione di “Riders on the storm” in Gemini, schiacciata però dal resto dei versi e dei testi successivi. Nokia si concentra su se stessa, in un’autoreferenzialità indispensabile al rap che qui però sfocia in ridondanza: in “Sugar Honey Iced Tea (S.H.I.T.)” citare l’episodio in cui difese un gruppo di ragazze dagli insulti razzisti di un uomo con il provvidenziale lancio di una zuppa diventa più il pretesto di un’autocelebrazione che un vero incoraggiamento a combattere per i propri diritti. Il pezzo è in ogni caso pieno di carica, i fiati e i cori volutamente orientati al gospel rendono pienamente giustizia alla performance dell’artista; mentre Sunday Best, grazie a OSHUN e Onyx Collective, richiama le rime affilate di Nokia del passato grazie ai riferimenti a “Brujas”, vista in “1992 (deluxe)”, e alla commistione linguistica e musicale nuyoricana del pezzo.

Il resto dei brani si appoggia alla prima parte dell’album senza aggiungere granché, e a questo punto il riferimento ormai ossessivo all’ostentato disinteresse che Princess Nokia proverebbe per i suoi haters inizia a insospettire, nascosto da una patina di leggerezza e noncuranza che traccia dopo traccia sembra sempre più sottile; fino ad arrivare a “The conclusion”, che come “Sugar Honey Iced Tea (S.H.I.T.)” sarebbe bastata, da sola, a esaurire il bisogno di Princess Nokia di ribadire la propria identità di artista e di donna senza la necessità di incorrere in un eccessivo narcisismo. “The girl cried and it rained/The sun started to come out”: forse l’artista sarebbe dovuta ripartire da quest’ultimo intenso eppure semplice ritornello per una narrazione davvero sincera, come si era proposta di fare, della propria interiorità.

67/100

Se “Everything is beautiful”, appoggiandosi a una produzione poco personale ma mai al di sotto della sufficienza, riesce comunque ad assumere un valore all’interno del rap della nuova decade, “Everything sucks” rimane intrappolato nel loop di un’eterna presentazione del personaggio Nokia.

Scritto in una sola settimana con la collaborazione – o piuttosto l’ostacolo? – di Chris Lare, il range limitato di tempo in cui è stato scritto e e prodotto sembra creare, piuttosto che il ritmo serrato e incalzante forse sperato, una monotonia martellante che non riesce a costituire un vero contraltare dark a “Everything is beautiful”; i beat scolastici della produzione potrebbero tranquillamente accompagnare i monologhi di un cattivo della Disney, se i cattivi della Disney potessero rappare.

Il tentativo di contatto con un flow più aggressivo alla Cardi B e concessioni, qua e là, alla trap non sembra funzionare; l’interminabile lista continuamente reiterata dei successi di Princess Nokia, del suo fascino, del suo talento, etc. etc. crea un effetto valanga che la trascina in una sconfortante autoincoronazione come profeta del rap in “Gross”. L’inno spietato a una femminilità forte e fuori dagli standard che avevamo incontrato in pezzi come “Kitana” e “Tomboy” obbliga a notare la caduta di stile di “I like him”, dove la paladina dei diritti LGBT e delle donne si rivolge al pubblico maschile oggettificandolo proprio quando ci sembrava superata l’idea di un femminismo che vorrebbe risolvere il problema della disparità di genere ribaltandola in senso opposto. “Balenciaga”, come altri pezzi di entrambi gli album, risulta più ascoltabile grazie al soccorso di Adam Pallin in produzione e anche se Princess Nokia parla sempre della stessa cosa – ovvero di se stessa – il tono scanzonato rende il tutto più accettabile. “Woes” è un contentino deludente al mondo di New York: l’artista sembra avere completamente messo da parte la collettività di cui si era fatta così coraggiosamente portavoce negli scorsi album, mentre “Just a Kid,” pur essendo un degno negativo di “The conclusion”, rimane una dichiarazione di umiltà ormai tardiva e contraddittoria rispetto al resto dell’album.

La Destiny Frasqueri brillante, caustica e appassionata che conoscevamo sembra essere stata fagocitata proprio dall’alter ego artistico che in passato era riuscito a portarla al successo senza farle perdere l’anima.

58/100

(Claudia Calabresi)