Gli artisti più rappresentativi degli Anni Dieci

Il quarto appuntamento del nostro viaggio alla scoperta degli Anni Dieci.

Tra le varie domande che ci siamo posti per riflettere sulla fine del decennio, non poteva mancare la classica indagine sui progetti più rappresentativi di questi anni 10. Dopo qualche consultazione redazionale, ecco sette nomi che secondo Kalporz rappresentano degnamente quello che è successo nel corso degli ultimi dieci anni. Certo, sette nomi sono pochi e alcune assenze gridano vendetta, ma abbiamo voluto tenere fede alla classiche Top 7 kalporziane e offrire una visuale ampia, che comprendesse dalla black music al pop e alle sperimentazioni elettroniche. Buona lettura.

Le altre puntate degli speciali sugli Anni Dieci le potete recuperare qui:
Gli album sottovalutati degli Anni ’10 – vol. 1
Gli album sottovalutati degli Anni ’10 – vol. 2
I live memorabili degli Anni Dieci
Le perdite degli Anni Dieci


KENDRICK LAMAR

Difficile trovare rivali quando si parla di Anni Dieci e di una figura in grado di sintetizzarne il rinnovato slancio artistico dai contenuti sociali e quell’amara rassegnazione di fondo da fine della storia che ha distinto questo decennio che si era aperto con grandi speranze naufragando in grigie prospettive future.
Kendrick Lamar ha aperto la sua carriera all’inizio del suo decennio, il decennio della rivalsa della musica black con una mitologia contemporanea in grado di creare un ponte tra la migliore tradizione della West Coast mettendo a fuoco una formula musicale che pesca dal jazz quanto dalle sonorità più attuali e contemporanee. Dal promettente “Section.80” del 2011 che ha messo in lustro il suo talento di MC, portandoci a scoprirlo meno di un anno dopo nella sua prima sconvolgente esibizione sotto i riflettori del mondo “indipendente”, il Pitchfork Music Festival di Chicago, a uno dei dischi simbolo degli anni 2010-2019, il generazionale e onnicomprensivo manifesto “Good Kid, M.A.A.D City”, in ogni traccia è condensata la storia e la spiritualità di un ragazzo qualunque, lontano da trascorsi ed espedienti di quelle vite al limite delle icone del genere, che guarda a Tupac e al Vecchio Testamento ma non disdegna mai proiezioni nella critica della società contemporanea. 
Con “To Pimp a Butterfly” e “Alright” il suo talento musicale travalica i confini prettamente musicali e americani per diventare un grido di rabbia e speranza nei mesi dell’esplosione della nuova protesta afro-americana di Black Lives Matter. 
Ogni sua canzone fa storia a sé. Riascoltare cronologicamente la sua discografia ci fa sentire fortunati di aver assistito da vicino all’ascesa di uno dei mostri sacri del nuovo millennio. 
E, non dimentichiamolo, ha compiuto appena trentadue anni. 
(Piero Merola)

FRANK OCEAN

Un altro afroamericano poco più che trentenne ha segnato in maniera molto simile un decennio di luci e ombre come quello che volge al termine. Frank Ocean, a partire dalla sua decisiva e formativa esperienza nel collettivo Odd Future, ha stravolto i canoni del rap del precedente ventennio, o su più ampia scala e più coerentemente con la sua proposta musicale, dell’r’n’b, rovesciandone lo stereotipo estetico e culturale sessista e virile della black music. 
Christopher Edwin Cooksey, nome di battesimo di questo ragazzo, schivo e raffinato nato a Long Beach e cresciuto nel profondo sud, a New Orleans, ha rovesciato il mito a modo suo, senza gli eccessi e le ostentazioni di grandi icone queer, e con una classe, un gusto e un’ispirazione non comune, nel decennio dei grandi cloni e degli imitatori più o meno riusciti dei miti degli scorsi decenni. 
Il resto è una storia fatta di due album insuperabili, “Channel Orange” e “Blonde”, un visual album , “Endless”, anticipati da “Nostalgia, Ultra”, il lavoro che l’ha fatto conoscere il mondo. La sua storia è una storia con un profilo sempre basso che ne ha accresciuto inevitabilmente l’hype ogni qual volta abbia fatto presagire una nuova uscita, e un mood sempre intimo e personale che l’ha tenuto al riparo da gossip, discorsi extramusicali e clamori mediatici. 
L’artista preferito dei vostri artisti preferiti è forse il personaggio più autentico e rappresentativo di questa generazione fragile dove anche un talento immenso come quello di Frank Ocean rischia di passare sotto traccia. Per fortuna esistono ancora le canzoni e i suoi dischi non hanno un brano che non abbia caratterizzato in tutte le sue sfaccettature le migliori idee e alcune delle migliori tracce del decennio. 
(Piero Merola)


BON IVER

A volte può bastare una canzone per descrivere un’epoca. Uno strumming di chitarra acustica ipnotico e un falsetto straziante che emerge dal più gelido degli inverni. “I am my mother’s only one / It’s enough / I wear my garment so it shows / Now you know / Only love is all maroon / Gluey feathers on a flume / Sky is womb and she’s the moon”.

Vociferazioni disegnano visioni di nature morte ma allo stesso tempo pulsanti dentro uno scenario apocalittico di redenzione: il cielo è un grembo, ci sono corde che bruciano, gli specchi d’acqua sono deformati dal vento, i laghi sciabordano come folli diffidenti. Lo scorrere delle chitarre si interrompe di colpo, la canzone collassa su sé stessa, una bufera elettrica di arpeggi spezzati è il preludio di un buco nero di silenzio difettivo che inghiotte tutto. Paura e sogni, tradizione e sguardo al futuro, tecnica ed emozioni. Bon Iver è lo specchio in frantumi dei nostri tempi.
(Emmanuel Di Tommaso)


TAME IMPALA

Gli australiani Tame Impala sono stati protagonisti assoluti della scena musicale del decennio che sta per concludersi. L’operazione fatta da Kevin Parker e i suoi non era facile: aggiornare ai giorni nostri la psichedelia dei sixties senza scadere nel puro revivalismo in maniera da renderla accattivante per le nuove generazioni. Così nel debutto “Innerspeaker”, e soprattutto nel seguito ancora più riuscito di “Lonerism”, i Beatles di “Magical Mistery Tour” e le filastrocche stralunate alla Syd Barrett vengono arricchite dai synth dal sapore anni ’80 e da batterie dal suono caldo e incisivo.

Il risultato convince un po’ tutti: dai vecchi nostalgici della psichedelia ai giovani hipster. La decisione di  abbandonare il lato più rock e chitarristico è quella che invece ha dettato la linea dell’attesissimo “Currents” che, se è andato bene a livello di vendite e consensi, lascia per strada molta della verve della band in nome di una sorta di lounge-disco music da bar alla lunga ripetitiva. Tuttavia siamo consci del genio di Parker.
Cosa ci porterà il nuovo decennio?
(Eulalia Cambria)


SOPHIE

“That’s really the audience I’m interested in communicating with – not ‘only’, but definitely the main focus of my interests. Playing to a crowd who are so free of inhibitions, wanting to have experiences that can actually change something fundamental in the way that people want to live.” Così SOPHIE raccontava del suo rapporto con la musica e con la performance, in una intervista per i-D di qualche tempo fa. Ed è proprio questo rapporto di convivenza tra autrice e fruitori dell’opera il punto dal quale bisogna partire per capire la produzione di SOPHIE.

Artista misteriosa fino a qualche anno fa, che si divideva tra una produzione per Madonna, inquetanti campagne marketing per fittizi energy drink e la decostruzione della club culture, ha cominciato a mostrarsi al pubblico con l’uscita del suo primo album, “Oil of Every Pearl’s Un-Insides”. Un disco che seppur uscito in coda al decennio attraversa e vive gli anni ’10 in tutta la loro potenza e le sue contraddizioni, passando dalla tenerezza di “It’s Okay to Cry” all’ode furry/BDSM di Ponyboy”: “Spit on my face/ Put the pony in his place/ I am your toy/ Just a little ponyboy”.

Quello che eleva SOPHIE dalla massa di musicisti e producer dediti a raccontare il proprio tempo è forse l’estrema corrispondenza tra forma e contenuto della sua opera musicale (a livelli che forse il solo Arca riesce ad avvicinare): se i suoi brani parlano di una generazione confusa, ferita, promiscua, esattamente come i suoni che produce, frutto di sintesi  HD e sample stravolti.

Tutto quello che serve a una gioventù ‘immateriale’ (e queer) per divertirsi, accettarsi e amarsi per come è.
(Matteo Mannocci)


BEYONCE’

Questa scelta potrebbe suonare fuoriluogo se consideriamo Beyoncé Knowles a buon diritto la migliore artista pop del decennio precedente, il decennio della sua autentica esplosione, dopo la fulminante carriera nelle Destiny’s Child. Gli Anni Zero erano stati gli anni del successo planetario di “Dangerously In Love”, “B’Day” e “I Am Sacha Fierce” e del matrimonio con il rapper partito dal degrado dei project di Brooklyn e diventato il musicista nero più ricco della storia.

Gli Anni Dieci sono stati gli anni di un’artista nemmeno quarantenne che ha saputo esplorare mondi nuovi e reinventarsi mettendosi nelle mani di produttori e collaboratori illuminati per assurgere al trono delle grandi icone black della storia della musica. Mamma modello, attivista, esplosiva performer nei mastodontici live che si trasformano in un trionfo di femminilità e orgoglio afroamericano, l’artista texana negli ultimi dieci anni ci ha regalato “4”, dove si riavvicina al mondo black a 360 gradi, l’insuperabile visual album omonimo del 2013, autentica sintesi della black music contemporanea in tutte le sue venature hip hop ed elettroniche per poi arrivare al seguito “Lemonade”, dove la sessualità e l’emotività più intima e sofferta lasciano spazio a sentimenti di rivalsa sociale femminile, rabbia e nuova emancipazione. 
Anche perché sono gli anni più tempestosi della sua relazione con Jay Z con una crisi di coppia definitivamente lasciata alle spalle con l’uscita dell’album collaborativo “Everything Is Love”
Godetevi “Homecoming”, uscito proprio quest’anno e forse vi convincerete del fatto che la famiglia Knowles – non dimentichiamo i capolavori della sorella minore Solange – ha segnato come nessun altro l’immaginario pop del nuovo millennio.
(Piero Merola)

ONEOHTRIX POINT NEVER

Durante una seduta dal dentista, stordito dall’anestesia, alle orecchie di Daniel Lopatin, l’uomo dietro Oneohtrix Point Never, arriva il suono di una radio soft rock/pop: 106.7 FM. One-O-Six Point Seven… close enough?

La carriera di OPN è stato sempre caratterizzata da sottili e bizzarri cambiamenti, privi di sterzate brusche, come se volesse mantenere un punto di contatto col passato più immediato, per mantenere il percorso onesto. Lopatin ha iniziato facendo musica sostanzialmente ambient ed è arrivato in “Age Of” ad accarezzare qualcosa di simile al pop. Sempre secondo il suo personale approccio: prendere un ricordo o una sensazione dal suo passato di adolescente negli 80s e ricavarne un’imprevedibile idea musicale, senza scadere nel vuoto revival.

Non a caso è sempre stato difficile catalogare la musica di OPN, nel suo rimbalzare tra synth-pop, ambient, no-fi, synth analogici, suoni digitali, estrema texturizzazione del suono, ma anche ricerca della giusta melodia. La vera grandezza di OPN è stata l’aver anticipato l’onnivorismo musicale che ha caratterizzato la seconda parte del decennio scorso.

Il labirinto musicale di Daniel Lopatin è il più grande ossimoro possibile: perfettamente armonico nella sua totale illogicità.
(Carmine D’Amico)