AFRICA FOR AFRICA No. 19

“I can hear the roar of women’s silence.” (Thomas Sankara, 1949-1987)

BIBI AHMED, “Adghah” (Sounds Of Subterannia, 2019)

Bibi Ahmed era il frontman del Group Inerane, band di Agadez nel Niger che ha pubblicato un paio di album per la Sublime Frequencies lo scorso decennio. Proprio come i Tinariwen fa parte anche lui del popolo tuareg e ha vissuto sin da bambino sulla propria pelle l’emarginazione di questo popolo nella regione. Potrebbe sembrare di cadere in quelli che si potrebbero definire come “cliché” parlando di questa musica, ma purtroppo è impossibile parlare della cultura tuareg senza considerare le problematiche della regione. Anche Bibi Ahmed ha una storia difficile, durante l’insurrezione tuareg è stato nei campi libici e proprio come avevano fatto i Tinariwen venti-trent’anni prima, è stato lì che con il Group Inerane ha cominciato a dare voce a queste esperienze. Finita questa pagina di storia lo ritroviamo qui con questo suo primo LP come solista, uscito alla fine di agosto per la Sounds Of Subterrania, etichetta di Gregor Samsa, un tedesco di stanza ad Amburgo, che ha comunciato questo progetto dopo essersi reso conto delle difficoltà oggettive di far conoscere la “musica africana” (egli stesso ritiene questa “definizione” sommaria, lo stesso faccio anch’io nonostante il titolo di questa “rubrica” qui sulle pagine di Kalporz e sommessamente me ne scuso) nel nostro continente. È interessante quello che dice sulla musica africana in generale: fa un parallelo con il punk e la scena underground della DDR, dice che quello che conta non sono le note, ma l’atteggiamento e le ragioni che portano a suonare. Abbiamo già detto delle ragioni di Bibi Ahmed e di conseguenza possiamo capire l’orientamento di Gregor Samsa: aggiungo come postilla, che ritengo sempre che le ragioni della “musica” siano altre che le sole capacità tecniche e del resto, quando ascolti un album, lo senti se chi suona ti sta dicendo delle cazzate oppure no. Bibi è stato difficile da contattare per Samsa: attraversare il deserto è difficile anche sul piano della comunicazione. Al centro dell’universo musicale di questo album, che si intitola “Adghah” e che Bibi ha registrato completamente da solo al Lotte Lindholm di Francoforte con la collaborazione di Fakir Ayonto, c’è un pezzo della storia del deserto di questi anni e che somiglia in maniera spaventosa a quella del Mare Mediterraneo. Il suono è quello di marca tuareg, riconoscibilissimo, qui tradotto in ballads tamacheck crude e senza nessun fronzolo particolare. Non lo avvicinerei nonostante tutto in maniera particolare ai Tinariwen, anche se si può riconoscere il marchio di fabbrica di quella regione, gli stessi sapori, tantomeno lo avvicinerei al più “facile” Bombino. Questo è un disco che ha un carattere più intimo, sembra il disco di un bluesman elettrico (Bibi Ahmed ha studiato con uno dei grandi maestri del genere blues tuareg, Abdallah ag Oumbadougou), quei pezzi che hanno una maggiore “vivacità” rispetto agli altri, ce l’hanno per l’uso delle percussioni tipiche, vedi ad esempio “Tel kal Tidit”, ma questo movimento si può trovare come espediente a macchie qua e là in tutto l’album. I pezzi migliori? La bellissima “Marhaba” e “La La La”, curiosamente (secondo i miei gusti) due pezzi che hanno meno delle caratteristiche del furore del sound rock psichedelico tamachek, ma sono effettivamente quelli che rendono al meglio il carattere spirituale di queste registrazioni.

70/100

EBO TAYLOR, “Palaver” (BBE, 2019)

Ebo Taylor (vero nome, Deroy Ebow Taylor) è nato nel 1936 in Ghana. È un chitarrista e scrittore di canzoni e si può dire che in campo musicale sta al suo paese come Fela Kuti sta alla Nigeria. Peraltro ovviamente i due hanno avuto modo di conoscersi e di collaborare quando durante gli anni sessanta entrambi erano a Londra. In una intervista che ho avuto modo di leggere di recente, Ebo racconta che durante quegli anni aveva avuto modo di conoscere anche i Beatles i Rolling Stones e che gli inglesi andavano matti per suoni “calypso” e “ska”, la loro mentalità era troppo ristretta in qualche modo per capire veramente la musica africana, ma di questo loro limite lui ne ha fatto una forza lavorando ulteriormente sul suo sound (va detto che è un chitarrista eccezionale) e dando vita a un riconoscibilissimo marchio di fabbrica che oggi viene definito come “Ghana Funky-Highlife” e che praticamente sarebbe una forma di afro-beat con un carattere maggiormente allegorico e ovviamente un inconfondibile groove funky. Parliamo di cose che sembrano lontane nel tempo, ma questo musicista è tuttora attivo e solo l’anno scorso ha pubblicato il suo ultimo album (“Yen Ara”, Mr Bongo), ma ci sono come può succedere spesso per quello che riguarda il continente africano, meraviglie che devono essere recuperate. Qui abbiamo cinque tracce registrate da Ebo Taylor nel 1980 in Nigeria, dove era in tour con il suo gruppo, per la Tabansi Records. Successe tutto in pochi giorni, poi Ebo e i suoi ragazzi se ne tornarono in Ghana e per qualche ragione questo materiale è rimasto sepolto fino a oggi, quando la BBE (che ha un accordo con la Tabansi) lo ha riportato alla luce. Be’, la qualità di questo materiale è sinceramente eccellente. Qui Ebo era con quella che si può considerare la sua “formazione-tipo”, la qualità delle registrazioni è molto buona e i pezzi funzionano tutti e cinque veramente bene: sembrano suonati tutti d’un fiato e coinvolgono l’ascoltatore tenendolo sempre sul pezzo dall’inizio alla fine. Fondamentale il groove funky della chitarra e il ruolo dei fiati, ma lo stesso modo di cantare di Ebo è marcatamente afro-beat, certo, ma capace di accompagnare il sound e di renderlo maggiormente avvolgente con le sue ritmiche. Le “Lost Nigeria Sessions” di Ebo Taylor è materiale che merita di essere ascoltato in maniera fedele e che può non solo esaltare i suoi fan storici, ma ha la forza per appassionarne anche di nuovi. Non è materiale di scarto e il dischetto, anche se contiene cinque tracce, non ha affatto il format di una pubblicazione “breve”. È un disco a tutti gli effetti quindi. Come se fosse nuovo. Non ha un tempo. Al contrario della musica britannica degli anni sessanta. Come spesso succede, gli inglesi hanno una vista limitata.

73/100

GRUFF RHYS, “Pang!” (Rough Trade, 2019)

Come definire a livello di genere questo ultimo disco di Gruff Rhys: l’ex Super Furry Animals lo ha definito “un disco di musica pop gallese con un paio di strofe in Zulu e un titolo in inglese”. Diciamo che è una definizione che ci può stare e anche se il titolo vorrebbe rimandare a qualche cosa di doloroso e che faccia segno nell’animo degli ascoltatori, una specie di “ferita” dritta fino in fondo al cuore, ci appare tanto disimpegnata da giustificare quanto “Pang!” (Rough Trade) sia un disco tutto sommato leggero, che punta tutto sulle colorazioni dei suoni e che ha un carattere sicuramente pop anzi “indie pop” e che come tale sotto una apparente originalità, alla fine rivela tutta la sua inconsistenza. Comunque non è la prima volta che Gruff fa un album in lingua gallese in quindici anni di carriera solista, la originalità del caso starebbe in verità nella collaborazione con il dj e producer sudafricano Muzi, un incontro che fa il paio con quello in occasione della partnership con Damon Albarn per l’ultimo album degli Africa Express (“Egoli”, Africa Express). Di conseguena la introduzione della lingua zulu in alcune strofe delle liriche dei pezzi dell’album (nove in totale). Nel disco suonano l’ex Flaming Lips Kliph Scurlock alla batteria, Gavis Fitzjohn ai fiati, Kris Jenkins alle percussioni e il disco è stato per l’appunto completamente remiscelato da Muzi nel suo studio a Johannesburg. Che dire. Per la verità al primo impatto “Pang!” sembra pure un disco interessante, uno dice: bene, ci sono delle buone premesse, si mette lì e lo comincia ad ascoltare con un certo interesse, ma bastano pochi minuti per capire che questa convergenza non ci sta e non ci sta perché questo qui è un disco proprio inconsistente, ha la vacuità di una roba tipo Kings of Convenience. Quindi roba già sentita e che in ogni caso guarda a quella specie di “bossa nova” (chiedo scusa agli amanti del genere che chiaramente troveranno questo accostamento come “anti-storico”) che si portava qualche anno fa, cioè: molti anni fa, e che comunque in quanto innocua, funziona(va) benissimo pure alla radio. Qualche cosa di buono in effetti lo fa il mixaggio di Muzi nei tempi di pezzi come “Bae Bae Bae”, “Ara Deg”, “Taranau Mai”, “Ol Bys”, ma se praticamente fosse stato un disco solo dell’artista sudafricano o se lui avesse remixato ancora di più tutto il materiale, evidentemente ne sarebbe uscito qualche cosa di molto meglio di questo dischetto pop inconsistente, forzatamente pop e alla fine francamente insopportabile. La cosa ridicola sta nel fatto che mentre in paesi come la Tanzania e l’Uganda si spingono verso il futuro con materiale musicale praticamente da riciclo, qui si propone invece come “contaminazione” nel senso di “modernità” e rinnovamento, una roba che è culturalmente innocua. Questo è. Evitatelo senza complessi e sensi di colpa.

20/100

Emiliano D’Aniello

Illustrazioni: Abdoulaye “Aboudia” Diarrassouba (1983).