BBV n. 22: The Warlocks, “Mean Machine Music” (Cleopatra Records, 2019)

Pochi gruppi riescono a tirarti dentro da subito, immediatamente, sin dalle prime note del disco, una dimensione tutta particolare e specifica. Questo è tanto più vero se parliamo di un gruppo che suona della musica rock e non mette in piedi delle sessioni ambient oppure dei set di musica elettronica.

Non c’è un carattere cinematografico nella musica dei Warlocks, non c’è una narrazione in un format tipo colonna sonora oppure delle velleità artistiche cervellotiche, quella di Bobby Heckscher, uno dei chitarristi più potenti in circolazione, è una attitudine rock and roll psichedelica diretta e peculiare: il suo sound è unico, lo riconosci immediatamente e ti cattura subito per la sua forza e la sua densità e la energia elettrostatica che produce.

L’ultimo disco dei Warlocks si intitola “Mean Machine Music”, esce su Cleopatra Records e viene presentato come un album sperimentale, che si muove in un campo largo che va dagli Stereolab al kraut-rock e poi al death rock. In effetti bisogna dire che è uno spazio che il gruppo di Los Angeles ha storicamente occupato e poi fatto come proprio con il suo sound negli anni, quindi da questo punto di vista non ci sono particolari novità, tuttavia ci sono nella composizione e nella struttura vera e propria del disco, formato da cinque tracce inedite e da quattro altri pezzi “reprise” della prima parte dell’album. Fa eccezione la sola “Tribute To Hawkind”, un pezzo “unico” strumentale e che è chiaramente un omaggio sin dal titolo allo storico gruppo britannico.

Lo stile dei brani è quello caratteristico sonico, vorticoso e dove domina su tutto il suono della chitarra di Bobby, che praticamente è come stare davanti a una specie di ciclone, una cura dello strumento e uno stile che sono diventati un vero e proprio modello difficilmente imitabile e forse poco imitato anche perché ardimentoso e coraggioso. Un coraggio che qui non manca e che via via, “Mean Machine”, poi “Disfigured Figure”, la ossessiva “You Destroy”, la ballad “It’s Hopeless” ci trascinano in una dimensione alterata e che alla fine fa anche sognare.

Poi ci sono i quattro “reprise”, praticamente dei set di musica sonico-psichedelica rielaborata al computer e tutto con la supervisione del tecnico del suono Phillip Haut (già collaboratore di Ariel Pink).

Roba interessante, un discreto trip sinfonico e di space music (fa eccezione forse la rivisitazione di “It’s Hopeless”, particolarmente espansiva e cosmica), ma non aggiunge nulla di specifico al valore complessivo del disco e sembra più una specie di sperimentazione che una nuova via per il gruppo che ha invece già una sua “impronta” molto potente e sempre valida, come si evince anche qui dalle cinque tracce “classiche”.

75/100

Emiliano D’Aniello